Reductio ad carnem. Prolegomeni al concetto di “vita degna di essere vissuta” nell’epoca della gestione zootecnica della società: de l’ ”aborto post-nascita” ed altre bestialità contemporanee
Di Pier Paolo dal Monte
Prologo
In questi tempi di epidemia in presenza di
“risorse scarse”, la Società Italiana di
Anestesia Analgesia Rianimazione e Terapia Intensiva (SIAARTI) si è posta il
problema che, non caso non sia possibile assistere tutti, sia necessario
effettuare delle scelte su chi curare e chi no, privilegiando i pazienti con
una aspettativa di vita più elevata, ossia i giovani piuttosto che gli anziani. Questo è il concetto, di per se
consueto, del “triage”, tuttavia, pone diversi quesiti.
Uno è senza dubbio il motivo di questa scarsità di
“risorse sanitarie”, riconducibile, con sufficiente precisione ai vincoli di
bilancio imposti dall’Unione Europea (parleremo di questo prossimamente)
Un altro, ed è il tema di quest’articolo, del
concetto di vita degna di essere vissuta o, come nel caso del documento della SIAARTI
di essere curata che, nella fattispecie usa un criterio ipoteticamente
quantitativo, ossia, come abbiamo detto, l’aspettativa teorica di vita residua.
Non ci dilunghiamo a commentare questo documento o le sue implicazioni (lo
faremo in seguito), riteniamo, tuttavia che sia assai attinente col tema del
nostro dell’articolo che segue, ossia col concetto di “vita degna di essere
vissuta”.
L’ “aborto post-nascita”
«Bisogna
parlare solo quando non è lecito tacere», scriveva Nietzsche. In genere
tendiamo a far nostra questa massima e, pertanto, a non indulgere nelle
tentazioni del καιρός. Siamo troppo pigri per confutare le innumerevoli
menzogne, o le fallacie che emergono, di momento in momento, con interventi puntuali,
articolati e puntiformi. In genere prediligiamo i“unire i puntini” che,
numerosi, sono dispersi nel vasto mare dell’essere, operando col solve, ma
soprattutto col coagula, impilando
pazientemente pietre e mattoni di
conoscenza,per costruire un edificio più solido, duraturo:
Talvolta, tuttavia, accade che il kairòs si ponga innanzi con sfacciataggine ineludibile: in quei
casi il silenzio diventa viltà e l’adiaforia (in genere virtù regia),
sottomissione.
Questa volta il esso si è presentato in maniera,
per così dire alquanto diacronica rispetto alla causa efficiente di quest’intervento,
essendosi inverato in un articolo, apparso qualche anno fa, sul Journal of Medical Ethics, dal titolo: “After-birth
abortion. Why should the baby live?” (la traduzione dei passi dell’articolo
è nostra) che, all’epoca non ci
sfuggi, ma non lo reputammo abbastanza cogente da stimolare un nostro commento
diretto.
All’epoca, ci parve ovvio che lo scopo principale
di un articolo che ha un siffatto titolo scandalistico (e un contenuto
scandaloso), non fosse quello di costituire un caposaldo del sapere, ma, precipuamente,
quello di suscitare un certo scandalo, dal momento che, questo, è sempre
foriero di dibattiti e di aspre contese le quali, a loro volta, sono fertile
cagione di citazioni bibliografiche (che ci parvero il vero scopo dell’articolo).
Pertanto, visto che ci è sempre parso esercizio
sterile quello di “misurarselo” in polemiche vacue e inconcludenti, ci
limitammo a additarlo quale esempio di immondizia filosofica o, più banalmente,
di filosofia da boudoir, in occasione
di qualche relazione congressuale
Poi, col passare degli anni, quasi dimenticammo
quel relitto, fluttuante nel vasto mare dell’anomia, fino a quando, come
dicevamo, si verificò un’altra occasione (il kairòs soffia dove vuole) che lo squadernò innanzi ai nostri occhi,
tramite uno dei loci di dibattito
della contemporaneità: Twitter.
Eh sì, il principio di conservazione non riguarda
solo l’energia, ma anche le scaturigini del pensiero (anche quando questo
pensiero è miserello): ben disse Günther
Anders: «Ciò che è stato diventa
una indelebile porzione di storia[1]».
E tutto quello che viene
immesso nel mondo comincia a vivere di vita propria, come eggregora dello Zeitgeist acherontico della nostra triste
epoca.
Ci è sembrato, quindi, opportuno commentarlo,
seppure inattualmente, perché, come già dicemmo, bisogna sempre di estirpare le
male piante del nichilismo prima che possano saldamente attecchire, sebbene
questo sia un compito piuttosto arduo, data l’epoca infame.
Ora, tuttavia, è bene porre un limite a questo
nostro indugiare e addentrarsi nell’eggregora in questione, il cui
scopo sarebbe quello di
“dimostrare” (sic), “l’identità etica” (sic) tra aborto e infanticidio, ovvero
quello di giustificare quest’ultimo dal punto di vista etico (le vie dello Zeitgeist sono davvero infinite).
Naturalmente, per attenuare un poco la brutalità del concetto, vi si premette
la frasetta: “se si verificano
determinate condizioni”.
I giovini “autori” iniziano subito con un
interessante asserzione, controfattuale e alquanto apodittica (anche se
espressa in forma ipotetica), che recita testualmente:
“Avere un bambino, in sé, può essere un peso intollerabile per la salute psichica della donna e per i figli già nati, indipendentemente dalle condizioni del feto […] pertanto sorge un problema filosofico se le stesse condizioni che avrebbero giustificato un aborto, vengono scoperte dopo la nascita»
“Avere un bambino, in sé, può essere un peso intollerabile per la salute psichica della donna e per i figli già nati, indipendentemente dalle condizioni del feto […] pertanto sorge un problema filosofico se le stesse condizioni che avrebbero giustificato un aborto, vengono scoperte dopo la nascita»
Ohibò, già la scelta dei termini lascia alquanto perplessi:
un “problema filosofico”? E perche, di grazia? Potrà, semmai, costituire un
problema affettivo, emotivo, pratico, finanche economico. Ma, filosofico?
Ah già, dimenticavamo un particolare, ovvero che
l’eggregora è un goffo, anche se tenace esercizio, da parte dei maldestri e
giovini autori, di “argomentazione filosofica” (chiamiamola così)
Nel prosieguo della lettura scopriamo, non senza stupore (che non è il
platonico thaumazein, ma qualcosa più
simile al raccapriccio) che vi sono finanche stati alcuni “filosofi” (evidentemente
da boudoir, come è consuetudine, in
questi casi) che hanno proposto l’eutanasia ( qui le parole vengono davvero gettate a spaglio) «per quei casi
nei quali la morte sembra essere nel migliore interesse del bambino [sic]», ravvisando la necessità di linee
guida per disciplinare la “materia”.
Anche qui, i malaccorti autori danno prova di capacità
logiche alquanto scarse: nel periodo testé riportato, il termine “sembra” regge
un’argomentazione la cui conseguenza è la soppressione di una vita. Peccato che
Il verbo “sembrare”, non indichi alcunché di certo, oggettivo, inoppugnabile,
ma sia sinonimo di opinione personale scarsamente fondata da verità di fatto e
di ragione; evoca l’alea dell’impressione transeunte, che può essere sempre
gravata da fallacie di ogni genere: il “putabam”
che è sempre stolto dicere. Ponendo
la questione in maniera aristotelica, dal lato delle cause abbiamo un “sembra”
(“crediamo ma non siamo sicuri”) dal lato delle conseguenze ( o del tèlos) abbiamo un atto irreversibile
compiuto “in conto terzi” (ovvero per conto della creatura sopprimenda) che, si
badi bene, comporta nientemeno che
la differenza tra essere e non essere (un assoluto ontologico).
Siamo davvero basiti nel constatare che, in
qualche luogo del vasto mondo, esistano
entità che pretendono di intestarsi il diritto di decidere in tal guisa
(peraltro con un “sembra”) su quale possa essere il “migliore interessere” di
un essere che ancora non può manifestare “interesse” (o desiderio, o volizione).
Cotesto bambino è un ens che si
manifesta nel mondo, seppure in forma diveniente, il quale, nella mente di
cotanti filosofi è una sorta ens-non-essente
astratto, sul quale esercitare un’epistemologia d’accatto dalla quale non può
che conseguire un’etica vaneggiante: un grumo teoretico che è il risultato di
un goffo miscuglio di emotivismo stolto, deontologia fallace, e teleologia
inconsistente.
Spiegheremo meglio nel prosieguo queste
asserzioni, per ora ci preme addentrarci ulteriormente nell’”articolo”, che si
rivela via via un autentico florilegio di vizi logici, talora così grossolani
da entrare, a buon diritto, nel campo, più prettamente psichiatrico,
dell’ideazione delirante.
Difatti, più avanti, gli imprudenti giovini si
accorgono di essersi cacciati in un vicolo cieco, e cercano di fare una
parziale retromarcia:
«Nonostante
sia ragionevole [?] pronosticare che,
vivere con determinate patologie sia contro l’interesse del neonato, è
difficile trovare un argomento definitivo per asserire che queste patologie
rendano la vita non degna di essere vissuta, anche quando esse costituirebbero
un motivo accettabile per l’aborto»
Ragionevole? E perché, di grazia? E con quale
ragione? Quella dell’osservatore che ha coscienza solo della propria condizione?
Quella dei parenti? Quella della puerpera sconvolta dalla notizia che il suo
piccolo sia “portatore di determinate patologie”?
Ma la cosa più interessante è quella frasetta
velenosa, quel piccolo virus in grado di infettare tutto il pensiero col quale
venga a contatto: “la vita degna di essere vissuta”: quel vecchio, nostalgico
ricordo dell’Aktion T4 che tante soddisfazioni diede al
Reich millenario. E i nostri fanciullini sembrano dispiaciuti che,
dall’evidente aporia che rilevano, sia difficile trovare un argomento
“definitivo” per definire tale la vita. Che cosa dovrebbero rendere
“definitivo” un argomento in tal senso? Un valutazione quantitativa o
statisticamente significativa? Magari tramite una sorta di calcolo del piacere
e del dolore di stampo benthamiano? E
con quale baldanza si rammaricano che non si possa trovare un una forma di
valutazione “oggettiva” per cotesta questione ontologica.
Perché, ovviamente, di ontologia si tratta: non si può certo fingere di non
comprendere (anche se, forse, i nostri autorini non fingono affatto) che il
concetto di “vita degna di essere vissuta” sia ontologico, e non certamente
emotivo, deontologico o basato sulla teleologia arruffata, della quale il
prosieguo dell’articolo è permeato. Tuttavia i ragazzacci, non ci sembrano in
grado di comprendere il livello di questo dilemma. Il loro “ragionamento” cerca
soltanto di oggettivare un punto di vista soggettivo: quello di un osservatore
esterno che si perita di valutare una questione ontologica di tal guisa con la
leggerezza di chi getta nell’immondizia l’insalata del giorno prima
Ma andiamo avanti, perché quest’articolo è una
vera miniera d’oro: mostrando la tenacia dei tigrotti che affilano I
loro dentini da latte, i baldi giovini si rifiutano di mollare l’osso. Proseguono
quindi con una pertinacia degna delle migliori dispute scolastiche:
«Il fatto che il feto abbia il
potenziale per diventare una persona che potrà avere una vita (almeno)
accettabile non è una ragione per proibire l’aborto. pertanto, noi sosteniamo
che [ovviamente il “pertanto” regge un non sequitur], quando, dopo
la nascita si verificano circostanze che avrebbero giustificato l’aborto[2],
ciò che chiamiamo “aborto post-nascita”, può essere giustificato»
Qui si
continua a procedere spediti verso le conseguenze insite nel concetto di
“vita-non-degna-di-essere vissuta”; e questo mediante quali raffinatissime
evoluzioni del pensiero? Ovviamente le seguenti:
«Nonostante l’ossimoro insito
nell’espressione, proponiamo di chiamare questa pratica [che, fortunatamente,
non è messa in pratica e quindi non è una pratica] “aborto post-nascita”, invece che “infanticidio, per enfatizzare il
fatto che lo status morale [?] dell’individuo
ucciso [“killed” nell’originale] è paragonabile a quello del feto […] invece che a quello di un infante».
Qui
stiamo arrivando al nocciolo della questione: abbiamo un “individuo ucciso”
(che, quindi, si presuppone che sia già stato ucciso) che avrebbe (o avrebbe
avuto) uno “status morale”, (che non si sa bene cosa significhi, ma cercheremo
di estrapolarlo dai ragionamenti
successivi) equivalente a quello del feto che, per apodissi si postula nullo, quindi, è parimenti nullo il suo
status ontologico (perché?).
Per
definire questa nullità ontologica si adopera però il termine “individuo”, ovvero
un essere riconoscibile nella sua unicità[3].
L’asserzione di cui sopra è, pertanto (questo, invece, è un sequitur), priva di senso, sia dal punto
di vista logico che da quello semantico, il che, date le pretese “filosofiche
dell’articolo, dovrebbe lasciare alquanto perplessi: o i tigrotti sono affetti
da grave imperizia nell’uso del linguaggio (e non si può neppure invocare
l’attenuante del non essere di madre-lingua, perché “individuo” e “individual”, sono pressoché uguali),
oppure non sanno davvero di che parlano.
Il
prosieguo dell’”articolo” ci fa propendere decisamente per la seconda ipotesi,
e questo fa sorgere alcune ulteriori perplessità, non tanto circa le capacità
di analisi filosofica dei tigrotti (che ci sono ben chiare), quando sui criteri
di valutazione della rivista che ha considerato questo scritto degno di
pubblicazione (saremmo curiosi di conoscere i peer reviewer).
Proseguiamo
dunque verso nuovi orizzonti di stupore:
«Pertanto, affermiamo che, uccidere un
neonato [sic] potrebbe essere eticamente
consentito, in tutte quelle circostanze nelle quali lo sarebbe l’aborto. Queste
ultime includono i casi nei quali il neonato ha le potenzialità di condurre una
vita accettabile [secondo chi?] ma il
benessere della famiglia è a rischio»
Ma non
è finita:
« Poiché l’interesse di quello che muore
[sic] non è necessariamente il criterio
primario per la scelta [che è quella di “ucciderlo”]. La ragione è questa: diversamente da ciò che accade per la morte di
una persona esistente [sic], il non
portare ali’esistenza una nuova persona [sic] non previene nessuno dalla realizzazione di obiettivi futuri
[sic]».
Dobbiamo
confessare al lettore che qui non sappiamo davvero da che parte cominciare.
In
primo luogo, sottolineiamo ancora una volta che “vita accettabile” non è che un
altro modo di significare “vita degna di essere vissuta”, che è un giudizio
risibile, dal punto di vista logico, e aberrante, dal punto di vista etico, non
ultimo per il fatto che, come già abbiamo enunciato, esso è attuato da un osservatore senza alcun titolo per
farlo, e su una vita appena iniziata. Una vita può essere, eventualmente,
giudicata tale solo al suo termine, dal soggetto che l’ha vissuta o, tuttalpiù,
da coloro che, ex post, ne valutino
pensieri parole, opere e omissioni (il che ci pare, peraltro, un esercizio
affatto sterile). Ma, anche qui, vale la domanda: secondo quale criterio di
giudizio? Il concetto di “vita-degna-di-essere-vissuta” non può essere un
criterio di giudizio ma, semmai, un giudizio, tanto più scriteriato (ossia:
“senza criterio”) quando questo viene applicato alla vita altrui allo scopo di
decidere se interromperla (che, fino a prova contraria, è voce del verbo
“uccidere”, non di quello “abortire”). Questo, senza scomodare l’etica, per due
motivi logici: il primo risiede nel fatto che vivere e morire non sono due
alternative commensurabili, così come l’essere non è commensurabile al nulla:
si può forse dire che la non vita sia meglio della vita, che il nulla sia
meglio dell’essere?
Il secondo, invece, risiede nel
soggetto: chi giudica riguardo a questa presenta dignità di vivere, non è
l’interessato ma un soggetto terzo, “portatore” di una diversa vita individuale
e, pertanto informato dai propri criteri personali e soggettivi. Dunque, se si trattasse di una discussione filosofica
(cosa che nella fattispecie, parci
una definizione alquanto ardita), diremmo che parliamo
di un altro caso di incommensurabilità o di domini descrittivi non equivalenti.
Proviamo comunque a sviluppare le conseguenze
implicite nell’argomentazione di cui sopra: siccome abbiamo stabilito, tramite
valutazioni soggettive (che non poggiano su alcuna base logica o empirica), che
il télos della creatura (moritura) è
assente, decidiamo, sempre secondo “fondamenti” soggettivi, che il, “valore
della sua vita” si annulla. Quindi, secondo un rapporto costi/benefici
arbitrario (utilitarismo benthamiano alla vaccinara) stabiliamo, deontologicamente, che questa vada
soppresso (seguendo il “ragionamento”: un valore della vita nullo fa sì che la
vita equivalga alla non vita).
E questo porta ad un’altra “incommensurabilità”
perché non è certo possibile “calcolare” l’eventuale il rapporto costi/benefici
quando questi non riguardano l’ente in oggetto: nel caso di soppressione di un
essere, i “costi” sono tutti a carico di quest’ultimo, e sono incommensurabili
per definizione (ancora: come si può quantificare la distinzione tra essere e
non essere?), mentre gli eventuali benefici sarebbero da attribuire alla
collettività sopravvivente attorno a lui.
Se dipaniamo questo ragionamento in maniera più cruda,
vediamo che (secondo l’argomentazione dei tigrotti) abbiamo a che fare con un
pezzo di carne animato ma atelico (vivente secondo zoe ma non secondo bios),
quindi privo di soggettività individuale (sempre secondo i giovini), destinato,
tuttavia, a cagionare un costo in termini economici, emotivi e sentimentali per
chi deve farsene carico (famiglia, società, contribuenti), costi che sarebbero
annullati dalla soppressione di quell’essere: un bel, sollievo e un bel
vantaggio per tutti!
A
questo punto, visto che,
quest’articolo si appella maldestramente ad un’ipotetica teleologia per
giustificare una decisione irreversibile, come quella della soppressione di una
vita, è bene fare un piccolo accenno all’etica teleologica seguendo colui che,
di questa, può essere considerato, se non il padre, almeno colui che, per
primo, ne ha dato una descrizione sistematica: Aristotele.
Secondo lo Stagirita, alla base dell’etica
teleologica vi è la comparazione tra l’uomo come è e l’uomo come potrebbe
essere se realizzasse le potenzialità delle quali la natura lo ha dotato. Per
dirla con le sue parole: «La natura di una cosa è quella che essa è quando è
completa la sua generazione»[4].
Nell’uomo come ha ben illustrato Pico della
Mirandola[5],
questa “generazione” non termina con lo sviluppo biologico ma è determinata
dalla tensione verso un télos
L’etica è ciò funge da guida sulla strada verso
questo tèlos, ovvero quella che dall’essere “indeterminato” conduce verso la
realizzazione delle proprie potenzialità più alte, ovvero quelle indicate dallo
stesso Aristotele nell’Etica Nicomachea:
«Infatti non in quanto uomo egli vivrà in tal
maniera, ma in quanto in lui v’e qualcosa di divino […] Quest’attività è
infatti la più alta, infatti l’intelletto è tra le cose che sono in noi quella
superiore […] Se dunque, in confronto alla natura dell’uomo l’intelletto è
qualcosa di divino, anche la vita conforme ad esso sarà divina […] Non bisogna
però seguire quelli che consigliano che, essendo uomini, si attenda a cose
umane ed, essendo umani, a cose mortali bensì, per quanto possibile, bisogna
farsi immortali e far di tutto per vivere secondo la parte più elevata che c’è
in noi»[6]
Ci
sembra superfluo rimarcare che i tigrotti sono ben lungi dalla capacità di
pensiero dello stagirita e, nel passo che riportiamo in seguito, ci si potrà
addentrare pienamente in quel groviglio di inconsistenza logica che porta
i tigrotti ad adottare una
personale teleologia scriteriata (ovvero senza alcun criterio).
«Se la morte di un neonato non è ingiusta[7]
per lui [“her” nel testo][8],
sulla base del fatto che esso [her
nel testo] non può ancora aver elaborato
alcun scopo il cui raggiungimento possa essere impedito, quindi dovrebbe anche
essere permissibile praticare l’”aborto post-nascita” [virgolette nostre] anche,
su un neonato sano [sic] dato che egli [she nel testo] non ha ancora formulato alcuno scopo”
.
Nel
passo riportato è chiaramente riconoscibile l’intento (peraltro assai goffo) di
costruire una sorta di percorso logico obbligato, il cui fine è quello di
condurre il lettore ad una conclusione che può soltanto essere l’affermazione
della legittimità dell’atto di sopprimere un neonato, perché si tratterebbe di un essere che non ha formulato
alcuno scopo è un non-essere e quindi, sano o malato che sia, può essere
tranquillamente soppresso.
Vorremmo pertanto attirare l’attenzione
del lettore sulla finzione teleologica che regge quest’argomento.
Apparentemente qui si parla di télos, ma in senso soggettivo, assimilandolo
totalmente agli obiettivi personali, peraltro, definiti da altro che non
l’essere in questione. Per parlare di etica teleologica, viceversa, è
necessario prendere in considerazione non la singola soggettività ma la “natura
umana” comune a tutti gli uomini[9],
e non certo gli scopi personali di
un singolo individuo. In ogni caso, non si capisce quale sia il motivo per il
quale il criterio di “vita degna di essere vissuta” (concetto aberrante, come
abbiamo già detto) debba essere la capacità del soggetto di formulare obiettivi
personali. Non vorremmo qui addentrarci negli spinosi meandri della definizione di individualità (o
di “scopo individuale”) nell’epoca dell’uomo-massa[10],
tuttavia, ci sembra questo un criterio ben curioso per definire il diritto alla
sopravvivenza.
Detto
in altri termini, quello che muore non è, secondo i nostri tigrotti, una
persona realmente esistente. perché (sempre secondo loro) una persona è
definita dalla capacità di concepire obiettivi. Siamo proprio al teatro
dell’assurdo: quand’è – di grazia- che un essere umano è sufficientemente
“sviluppato” da poter concepire cotesti obiettivi? E perché una vita
individuale dovrebbe essere definita da questo criterio?
Ma gli
indomiti tigrotti non si danno per vinti, inanellano una definizione circolare
dopo l’altra in un crescendo wagneriano, tant’è che, approssimandoci alla fine
di questo vaneggiamento, iniziamo ad avvertire un certo capogiro. Per
introdurre il prossimo passo, non sfigurerebbe un rullo di tamburi, come
all’inizio del V movimento della II sinfonia di Mahler la quale, però, è
denominata “Resurrezione”, nome alquanto inappropriato per fungere da colonna
sonora per questa apologia di mattanza.
«Lo
status morale [?] di un infante è equivalente a quello di un feto, nel senso
che entrambi mancano di quelle proprietà che giustificano l’attribuzione, ad un
individuo, del diritto alla vita [?!?!]. Entrambi, il feto e il neonato sono,
certamente, esseri umani e “persone potenziali” [virgolette nostre], ma nessuna
delle due è una “persona” nel senso di un soggetto dotato di diritto morale
alla vita [!?!?]»
I
tigrotti, naturalmente cercano di argomentare quest’assunto alquanto avventato,
ma la spiegazione assume tosto l’aspetto di un delirio lisergico:
«Col
termine “persona”, intendiamo indicare un individuo che è capace di attribuire
alla propria esistenza [her own nel testo] qualche (almeno) valore di base per
il quale essere privato dell’esistenza rappresenti una perdita […] E questa condizione dipende dal livello di
sviluppo che, a propria volta, determina se esso [she nel testo] è una persona
o no»
Il
passo testé riportato merita di essere commentato con una certa pedanteria,
quasi parola per parola, e non certo perché essa sia latore di un messaggio
significativo ma parchè, al contrario, dimostra come un cattivo uso del
processo logico –in realtà, l’abolizione dei processi logici tout court-
conduca a simili spropositi.
Che
cosa significa l’asserzione: « essere capaci di attribuire alla propria
esistenza un qualche valore di base»? Che cosa sono i «valori di base» in
un’etica arbitraria e inconsistente come quella propugnata dai tigrotti?
E
perché compiere un tale giro di parole, appellandosi ad una finzione
teleologica, quando è ovvio che tutto il loro ragionamento si basa su un
presunto sviluppo cognitivo (come evidenziano nel finale della frase)?
Cercheremo
di semplificare un poco coteste contorsioni traducendo, in modo più lineare, le
conclusioni implicite nel ragionamento, anche se, come dicono a Napoli, “'e voglia
'e mettere rum, chi nasce strunz' nun po' addiventà babbà”:
“se si considera che il livello di coscienza [o
cognitivo, che dir si voglia] del neonato
non è superiore a quello del feto [livello del quale, beninteso, un osservatore
esterno nulla può sapere], allora le due
“entità” sono equipollenti. Pertanto, visto che l’aborto è consentito, allora dovrebbero esserlo parimenti
l’infanticidio post-nascita”
Il
fatto è che, quando un ragionamento è basato su premesse sbagliate, quand’anche
si svolga secondo una sequenza logica apparentemente conseguente, rimane pur
sempre fallace, specie se accompagnato da un errato uso dei termini, essendovi
una disinvolta interscambiabilità dei termini “individuo” e “persona” quando il
loro significato è affatto diverso e, certo, non sovrapponibile. Avendo già
dato conto del significato del primo, spenderemo ora qualche parola sul
secondo. Il termine persona che, in latino, significa, in primo luogo,
“maschera”, “personaggio”, la parte rappresentata in un dramma dagli attori, e
indica quel tratto dell’individuo ch’egli mostra agli altri, la sua “maschera
sociale” e, per estensione, il suo ruolo nella collettività, quello che gli
altri percepiscono di lui.
Ebbene,
tutta l’argomentazione dei tigrotti è retta da questi errori terminologici (il
linguaggio non è mai neutro): essi gabellano l’essere sociale per essere
ontologico, il sembiante per essente , l’utilità sociale per teleologia
individuale, in poche parole: l’attore per il personaggio interpretato (come se
Arnold Schwarzenegger, nella vita
reale, fosse Terminator). Questo, si
può evincere ancora meglio nel passo seguente, nel quale, come nel gioco
dell’oca, i nostri autorelli incappano nella casella che li fa tornare al punto
di partenza, ovvero, alla benthamiana aritmetica della felicità, che si
manifesta nell’allucinazione psichedelica della distinzione tra “persone reali”
e “persone potenziali”: “non persone”, quindi, o “non-del-tutto-persone” che,
in quanto tali, non hanno alcun diritto di turbare i progetti di coloro i quali
vivono attorno ad essi.
« Dall’altro canto, non solo gli scopi, ma
anche piani ben sviluppati sono concetti che, certamente, si applicano per quelle persone
(genitori, fratelli, società) che possono essere affetti, positivamente o negativamente
dalla nascita di quel bambino. Pertanto, i diritti [ “i diritti”] e gli
interessi delle “persone reali” [virgolettato nostro] coinvolte, dovrebbero
rappresentare la considerazione prevalente in una decisione circa l’aborto e
l’”aborto post-nascita” [virgolette nostre]»
Perché
l’importante è che nessuno possa turbare l’ordine del Homo Oeconomicus del terzo millennio, che nulla possa disturbare
l’individuo desiderante nel perseguire i desideri conculcati dall’inesauribile cornucopia di quel
supermarket ontologico che è la modernità: non sia mai che una
non-del-tutto-persona possa intralciare il progetto di una bella vacanza a
Ibiza.
D’altra
parte, i nostri rappresentanti della Scolastica nel Boudoir[11] si rotolano
con una certa ossessività nella loro fenomenologia dell’Untermensch:
«In ogni caso, quantunque si possa
beneficiare [sic] qualcuno
conducendolo all’esistenza [sic] se
la sua vita è degna di esser vissuta [sic]. Non ha senso affermare che qualcuno sia danneggiato dall’essere
impedito dal divenire una “persona reale” [sic, virgolettato nostro] […] Se una “persona potenziale” [sic,
virgolettato nostro], come un feto o un neonato, non diventa una persona reale,
come voi e noi sic, corsivo nostro], non v’è né una persona reale, e neppure
futura, che può essere danneggiata, il che significa che non vi è alcun danno»
“Una
persona reale, come voi e noi” …ma, di grazia, chi ha fatto credere ai
tigrotti di essere una “persona reale” come noi (evidentemente non hanno
pensato di poter essere, essi stessi, sottoposti ad un giudizio analogo) e non
una sorta di fantasmi creati da una Weltanschauung
alienata della quale, peraltro, contribuiscono, con voluttà, ad aggravare la
malattia? Donde proviene cotesto diritto di esprimere cotale giudizio su se stessi?
Donde giunge l’adamantina convinzione di avere un indiscutibile diritto alla
sopravvivenza? Dai famosi “piani e progetti ben sviluppati” coi quali la menano
per tutto l’ “articolo”? Ma chi è che esprime codesti piani e progetti?
Individui, forse, oppure esseri che esprimono sogni e aspirazione forniti loro
dal grande supermarket delle brame? Sì, perché quello che si evince dai criteri
dei tigrotti è che cotesto diritto all’esistenza sia determinato dal
manifestarsi semplicemente che
come esseri bisognosi e desideranti bisogni e desideri che sono conculcati da
un “sistema” che ha bisogno e desidera determinati bisogni e desideri,
Eh,
cari tigrotti, quando ci si avvia sul periglioso sentiero della “reductio ad Untermensch” diventa alquanto difficile
fermarsi: è troppo comodo adottare la finzione retorica degli “scopi e dei
piani ben sviluppati” come criterio per essere considerati “esseri umani
propriamente detti”, quando questi piani sono sempre etero diretti, dal momento
che non è dato un pensiero monadico che si erge nello spazio etereo di
un’assoluta individualità in diretto contatto con le idee platoniche.
Cosa
sono, dunque, questi scopi, questi progetti, ossia ciò che fa creder voi di
essere pienamente in diritto di non essere abortiti post-nascita (i limiti
temporali che pongono nell’articolo, ovviamente, non possono essere altro che
convenzione)? Se i criteri sono quelli posti da voi, purtroppissimo, non ne
vediamo.
Forse
che il diritto alla vita è legato a qualche progetto lavorativo o coniugale che
può durare, al massimo, qualche decina d’anni? Vacanze, compere, relazioni,
finanche studi (che non portano certo ad un avanzamento della saggezza
collettiva, come dimostra questo pietoso scritto)? Tutte cose, che,
comunque, verranno abbandonate al
termine di quell’aborto post-nascita inevitabile che si chiama morte.
E,
soprattutto, non vi siete posti la questione cruciale, che fu peraltro assai
chiara agli egizi e ai babilonesi fin dalla notte dei tempi , ovvero che la
genìa di funzionari e scribi (della quale fate parte) possa esistere solo in
virtù del surplus che, i produttori reali –un tempo i contadini, ora tutti
coloro che creano valore aggiunto o plusvalore- creano, e che consente
l’esistenza di quel clero del quale fate parte.
La
vostra esistenza è consentita, quindi, dal lavoro di coloro i quali, con dura
fatica e scarsi riconoscimento portano quotidianamente a casa la pagnotta dalla
quale devono asportare il pezzo che permette a voi di mangiare.
Credete
davvero che, per costoro valga la pena di sottoporsi a quel sovrappiù di
fatica (o a quel “sottomeno” di
pagnotta) per consentire le vostre assurde elucubrazioni?
Noi,
francamente, crediamo di no.
[1] Günther Anders,
L’uomo è antiquato I, Bollati Boringhieri, Torino 2007, p.273
[2] Dimenticando
naturalmente di specificare che queste “condizioni” sono stabilite
arbitrariamente, da un etica che si basa sul sensus communis dello Zeitgeist
[3] In-dividuo,
ovvero non divisibile ulteriormente
[4] Politica, 1252 b
[5] Cfr. Pico Della
Mirandola, Oratio de Homini Dignitate
[6] Aristotele, Etica
Nicomachea, 1177
[7] Nel testo:
“wrongful”, che si potrebbe anche rendere con “illegittima” ma, nel contesto,
ci è sembrata più conseguente la traduzione adottata
[8] Un omaggio
quantomai bizzarro al politicamente in un testo nel quale si parla di soppressione
“gratuita” di una vita
[9] Intesa come
quell’assieme di caratteristiche che accomunano tutti gli esseri umani e li
identificano come tali
[10] In ogni caso,
nella società di massa, è sempre difficile parlare di individualità o “scopi
personali”, perchè questi sono, comunque, un costrutto sociale e, pertanto,
eterodiretti.
[11] Ne “la filosofia
nel Bodoir”, Urtest di questo filone
di pensiero, è già stato detto tutto, al riguardo.
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