L’uomo fabbricato in serie


Di Pier Paolo Dal Monte



L’immagine dell’uomo tipica della società nata dalla rivoluzione industriale, è assai più simile a quella di un esemplare di un gregge che non fa nulla di diverso dai suoi simili, che si muove o sosta all’unisono con essi, sotto lo sguardo vigile del cane pastore, il cui atteggiamento verso il mondo sia quello di un ovino nei confronti di un pascolo, per il quale esso rappresenta semplicemente qualcosa da divorare e digerire. Questo esemplare umano deve essere parimenti docile e indirizzabile, in modo da poter essere facilmente indotto a non bramare null’altro che pascersi in quella sorta di paradiso artificiale stracolmo di ogni genere di «oggetti del desiderio», che è l’immagine del mondo così come è dipinta dalla moderna propaganda.

Ancorché l’appartato ideologico che sta alla base della nostra civiltà, sia retto da un castello di fandonie, esso riesce a disegnare un’immagine apparentemente coerente e, soprattutto, estremamente convincente (come peraltro lo sono quelle tipiche dei deliri schizofrenici) e, pertanto riesce a convogliare le energie, i desideri, le aspirazioni e l’immaginazione dei membri della società in modo che siano conformi alla visione del mondo dominante, e inseguire senza sosta i fantasmi che continuamente vengono creati dalla grande fabbrica di illusioni e desideri che forma quello che viene chiamato «opinione pubblica».

Finalmente, dopo secoli di sforzi, sta giungendo a compimento l’opera di costruzione di questo esemplare umano: ormai il «nostro mondo» è popolato, quasi esclusivamente, da individui che, senza coercizioni ma in maniera docile e «volontaria», sono adattati a funzionare nel modo richiesto dal “taylorismo” sociale.

La figura immaginaria del «migliore dei mondi possibile» è stata estremamente efficace per la creazione di questo tipo d’uomo, perché è perfettamente adatta a convincere ognuno che, qualunque possa essere il proprio grado di insoddisfazione nei confronti di questo sistema (difficoltà di adattamento, infelicità, noia), egli è stato comunque beneficiato dalla storia e della geografia: qualunque altro mondo sarebbe senz’altro peggiore di questo. Non siamo ancora giunti al punto di affermare, come Lenina Crowne che: «Tutti oggigiorno sono felici»[1]; ma è stato facile convincerci che «Oggigiorno tutti sono molto meno infelici di un tempo»

Viviamo in una società apparentemente libera, nel senso che, nei nostri cosiddetti «sistemi democratici», non esistono autorità realmente coercitive (come quelle che vigono nei regimi totalitari), le quali negano apertamente la libertà mediante misure repressive evidenti, rendendo così i propri sudditi consapevoli di vivere in un sistema illiberale. Nei Paesi dove vigono la democrazia e il libero mercato gli uomini si illudono di condurre la propria esistenza in una confortevole libertà e, in quest’illusione non si accorgono della costrizione «invisibile» che li induce a comportarsi così come ci si aspetta da loro.

Questa «libertà» consiste semplicemente in un quiescente conformismo che impedisce il sorgere di conflitti reali: non v’è più distinzione tra la forma mentis degli individui e quella della totalità del sistema. Gunther Anders dà un’immagine puntuale e spietata di questa condizione:

«Nel nostro stadio più perfetto, la personalità è cancellata; perché l’asservimento, ovvero la non-esistenza della persona, può essere già considerato un fait accompli. In tali circostanze, l’obbedienza esplicita (che realizza la servitù) è diventata superflua. Perciò diventano inutili ordini e divieti. […] di fatto, poiché la persona non esiste più, l’appello al suicidio morale non raggiungerebbe o non riguarderebbe più nessuno. Sui cadaveri non si spara»[2]

L’«invisibile totalitarismo» che permea la nostra società, fa sì che gli apparenti conflitti che sorgono nell’ambito del Sistema, si svolgano sempre all’interno dei confini tracciati dalla sua Weltanschauung. Come in una rappresentazione teatrale nella quale gli attori possono inscenare passioni e contese con drammatica intensità, senza esserne in alcun modo turbati - perché tutti sanno perfettamente che si tratta della messa in scena di una finzione-, così, anche nella grande commedia che costituisce quella che viene definita «vita reale», non mancano le lotte e i dissidi nei confronti dell’Apparato. Si sa: le conquiste sociali, lo sviluppo di una coscienza e di una consapevolezza collettiva sempre migliori, il cammino infinito verso le «magnifiche sorti e progressive», sono risultati che non si affermano da soli, ma bisogna lottare perché si impongano. La lotta è necessaria, ed è funzionale al rafforzamento del Sistema perché incanala le energie delle masse in contese posticce che, in realtà, si svolgono sempre nei binari tracciati dal pensiero dominante, in modo che non possano intaccare pericolosamente la struttura portante dell’edificio della modernità. Possiamo «liberare» il corpo, come è avvenuto con la soppressione della severa morale sessuale vigente in passato, l’importante è che lo spirito rimanga sotto chiave, perché ogni apparenza di libertà (che non metta in discussione l’epistemologia progressiva) rafforza il meccanismo nel suo assieme mascherandone il carattere coercitivo.

«L’odierno mondo del conformismo […]promuove o addirittura produce la stravaganza non appena ha bisogno di un alibi […] Fa infatti parte dei compiti del conformista non uscire mai dall’illusione della libertà. E questo compito egli l’adempie nel momento in cui non si rende conto dell’onnipresenza e dell’indicibilità dell’omologazione, quasi ch’essa non esistesse affatto […] Naturalmente, là dove ordini in quanto ordini e divieti in quanto divieti non esistono più, nasce l’impressione che ordini e divieti non esistano più, dunque l’illusione della libertà.In realtà la privazione di libertà della persona va di pari passo con l’ideologia di libertà della persona»[3]



È opinione diffusa che la nostra sia una società individualista, questo luogo comune è così radicato nella moderna interpretazione del mondo che nessuno si sogna di contestarlo, tuttavia, è ben lungi dall’essere veritiero. Esso deriva dal pregiudizio dell’«Homo Oeconomicus», anche questo assai consolidato, che pretende di spiegare il comportamento umano, nei sistemi sociali, come determinato esclusivamente dall’interesse individuale e considera quindi le persone alla stregua di monadi in perenne lotta tra loro (l’altro pregiudizio collegato dell’homo homini lupus) per accaparrarsi più vantaggi possibili.

Ovviamente una rappresentazione così banale non può rendere ragione della complessità della storia umana. Se essa non fosse altro che l’espressione di questo stolido utilitarismo, non vi sarebbe stata civiltà, storia o poesia, e neppure linguaggio, arte, filosofia o religione. È anche vero, però, che lo stesso pregiudizio utilitaristico di cui parliamo, è espressione dello Zeitgeist dal quale ha avuto origine il tipo di sistema sociale scaturito dalla rivoluzione industriale,  che è molto più simile ad un aggregato di individui spinti soltanto da interessi egoistici e tenuti assieme da un complesso di norme alle quali devono sottostare, piuttosto che a una comunità i cui membri cooperano per il bene comune. Tuttavia, se si va un poco in profondità, si può facilmente constatare quanto sia improprio definire individui queste «unità sociali», almeno quanto lo sarebbe definire tale il singolo esemplare di un formicaio o di uno sciame d’api.

La visone del mondo che domina la nostra società costituisce una sorta di «dittatura intangibile» che agisce attraverso i propri miti, la propria propaganda e la propria organizzazione, in modo da modellare la capacità di giudizio e di pensiero degli uomini rendendoli, di fatto, privi di un’identità individuale vera e propria. Non esistono, de facto, dissonanze fondamentali tra i singoli esemplari umani di questa società, poiché il carattere della maggior parte di essi è stato plasmato dalle istanze, che promanano dall’Imago mundi stereotipata, e che sono state introiettate a tal punto che quasi nessuno è più in grado di comprendere quanto le proprie «idee personali» siano, in realtà, state forgiate dal pensiero dominante.

È quasi banale rilevare che, coloro che vengono definiti individui, non siano realmente caratterizzati da pensiero, aspirazioni, motivazioni propriamente individuali, da idee o opinioni originali, fondamentalmente diverse da quelle della massa umana alla quale molti credono di non appartenere; ma siano una sorta di «prodotti umani» fabbricati in serie, «omologati dagli innumerevoli “canti delle sirene” che assieme generano quello che viene individuato come comportamento socialmente desiderabile[4].

Questi canti costituiscono un costante «rumore di fondo» nel quale è immersa la vita di tutti; ed è difficile, in questa condizione, trovare un attimo di silenzio che consenta alla mente di innalzarsi per osservare un diverso orizzonte. Il contenuto dei pensieri di queste monadi stereotipate è totalmente permeato da questo pervasivo rumore, da questo bombardamento continuo, tanto che esse non riescono più ad osservare con i propri occhi nè a pensare con la propria mente o a parlare con la propria voce. Si conformano, senza tuttavia essere consapevoli di questo conformismo, credendo di possedere ancora un’individualità che sia essenzialmente diversa dai contenuti che vengono loro «inoculati» in maniera surrettizia e suadente.

Tutti seguono la stessa corrente, lo stesso pensiero, lo stesso linguaggio; non si rendono più conto di quali siano i propri bisogni – quelli veri – perché nessuno ha più bisogno di altro da quello che gli viene offerto. Non vi sono più idee che non siano un mero riflesso della sottocultura vigente; non più reali sentimenti, perché anche questi vengono «trasfusi» nelle persone da ciò che forma il sentire comune[5]. La natura di ognuno viene a coincidere con una sorta di astrazione collettiva, la «natura sociale», prevedibile oggetto di esperimento per la moderna propaganda e per le ricerche di mercato. Così Adorno e Horkheimer commentano questo fenomeno:

«Gli uomini hanno avuto in dono un Sé proprio e particolare e diverso da tutti gli altri, solo perché diventasse più sicuramente identico […] L’unità del collettivo manipolato consiste nella negazione del singolo; è una beffa rivolta a quella società che potrebbe fare dell’individuo un individuo»[6]

Le singole entità umane sono indistinguibili nella massa perché tutti compiono gli stessi atti, pronunciano le stesse parole, pensano gli stessi pensieri, provano gli stessi sentimenti e sono mossi dalle stesse pulsioni. Non si interrogano troppo sul «perché», basta che vengano loro fornite istruzioni sul «come». La fede nei dogmi e nei miti che informano l’ambiente ideologico e psichico nel quale vivono, è sufficiente affinché tutti cooperino a spingere il «carro sociale» nella direzione richiesta, senza che sorgano troppi dubbi o vengano richieste troppe spiegazioni.

Il totalitarismo ideologico del nostro sistema è perfetto, poiché ha eliminato totalmente ogni punto di riferimento esterno ad esso: non esiste più nulla al di fuori del processo autopoietico della sopravvivenza e della crescita dell’organismo sociale; non esiste quasi più pensiero che non abbia un contenuto meramente pratico, che esuli dallo scontato utilitarismo del «calcolo del piacere e del dolore».

Non è quindi più nemmeno concepibile l’idea di andare «contro corrente» perché, come l’uomo non si avvede del movimento di rotazione della terra, dato che tutto, sulla sua superficie, si muove allo stesso modo, così non è possibile accorgersi che esiste una corrente che fluisce, se non vi sono punti fermi che rendano consapevoli di questo fluire. Tutto è catturato dalla corrente dell’illusione ideologica dominante e nulla più può turbare il suo placido ma inesorabile corso. Hannah Arendt descrive così il risultato di questo lungo processo di cancellazione del pensiero:

«Scomparve così anche l’ultima traccia di azione compiuta dagli uomini, il motivo implicito dell’interesse personale. Rimase solo una «forza naturale», la forza del processo vitale, alla quale tutti gli uomini e tutte le attività umane erano egualmente sottoposte («lo stesso processo del pensiero è un processo naturale») e il cui scopo, se mai può esservene uno, era la sopravvivenza dell’animale uomo. Nessuna delle facoltà superiori dell’uomo fu più necessaria per connettere la vita individuale con la vita della specie; la vita individuale divenne parte del processo vitale, e lavorare, assicurare la continuità della propria vita e quella della propria famiglia, fu tutto quanto bastava. Ciò che non era richiesto, perché non occorreva per il metabolismo della vita, era o superfluo o giustificato solo in termini di peculiarità della vita umana»[7]







[1] Aldous Huxley, Il mondo nuovo, Rizzoli, Milano 1989, p.91

[2] G. Anders, L’uomo è antiquato II, cit. p.178

[3] G. Anders, L’uomo è antiquato I, cit., pp. 128, 130, 178

[4] Gunther Anders, L’uomo è antiquato II, cit., p.128

[5] A questo proposito è da rilevare la coercizione morale costituita dalla moda del «politicamente corretto»

[6] T.W.Adorno, M.Horkheimer, Dialettica dell’illuminismo, cit. p.21


[7] H. Arendt, Vita activa, cit., p. 239-240

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