Pensiero individuale e pensiero di massa (prima parte)
Di Effe Bi
Introduzione
In
questo breve articolo ci occuperemo del rapporto tra il pensiero dell’individuo
ed il pensiero delle masse.
I
nostri pensieri sono veramente liberi? Far parte di un determinato gruppo condiziona
il nostro modo di ragionare?
L’essere
umano vive in società, è quindi poco probabile che i suoi pensieri siano
totalmente indipendenti.
L’ambiente
in cui viviamo ci condiziona ma noi lo condizioniamo a nostra volta.
Si
tratta di un rapporto bidirezionale a lungo indagato da psicologi, sociologi e
da altri ricercatori sociali.
Per
quel che riguarda l’influenza del contesto sociale sugli individui sono state
individuate alcune interessanti dinamiche.
Una
delle variabili più importanti è la spinta alla uguaglianza. Ci piace sentirci
diversi dagli altri ma solo fino ad un certo punto.
La
maggioranza ci riconduce all’ordine attraverso diversi meccanismi presenti in
ogni società.
Uniformità:
si basa sulla condivisione dell’assunto implicito (inconscio) che l’essere simili
agli altri sia qualcosa di desiderabile.
Conformità:
indipendentemente da quanto un individuo possa avvertire come valide le sue
convinzioni alla fine tenderà a voler essere simile agli altri.
Obbedienza:
nessuno è totalmente libero di non render conto alle disposizioni dell’autorità.
Norme
sociali: il funzionamento di una società si basa su regole condivise che non
devono essere messe in discussione. La maggior parte di queste regole sono
informali e diventano evidenti soltanto quando vengono infrante.
Contagio
sociale: in una società complessa nessuno può conoscere tutte le regole formali
ed informali vigenti. Per rendere più efficace la nostra esperienza in società
prendiamo gli altri (considerati competenti) come modello.
Il
bisogno di libertà (di pensare, di essere, di agire) di ciascuno di noi si
scontra con la necessità di non essere troppo diversi dagli altri, di non
sentirsi soli, di non correre il rischio di finire tra gli emarginati.
L’esperimento di Asch
Nel
1951 lo psicologo polacco Solomon Asch elaborò un esperimento per valutare
quanto gli individui siano portati a conformarsi con l’opinione della massa.
Durante
l’esperimento veniva chiesto ai partecipanti di confrontare la lunghezza di una
linea con un set di altre tre linee e di indicare quale di esse fosse di
lunghezza identica a quella presentata in precedenza.
Per
i partecipanti era un semplice esperimento di discriminazione visiva.
Ciascuna
somministrazione prevedeva la partecipazione di otto persone di cui sette erano
collaboratori di Asch ed uno il vero soggetto osservato.
Le
prime somministrazioni procedevano in modo regolare, tutti i partecipanti
rispondevano correttamente.
Dalla
terza somministrazione in poi gli aiutanti di Asch iniziavano a dare risposte
errate. Tutti rispondevano indicando la stessa linea che era palesemente diversa
da quella campione.
L’unica
persona ignara del trucco sperimentale rispondeva per ultima o per penultima.
Nella
stragrande maggioranza dei casi la risposta si conformava a quella indicata da
chi aveva risposto in precedenza. Soltanto pochi riuscirono a resistere alla
pressione di gruppo.
Molti
soggetti ad esperimento concluso riferirono di essersi accorti dell’errore ma
di non essere riusciti a rispondere nel modo in cui avrebbero voluto.
Quando
siamo in pubblico ci adeguiamo alle opinioni altrui, non cambiamo realmente il
nostro punto di vista. Sotto pressione normativa ci si conforma al pensiero di
gruppo per non correre il rischio di finire tra gli esclusi.
Uno
stimolo ambiguo permette molteplici interpretazioni facendo aumentare le
probabilità di doversi uniformare al giudizio altrui.
Maggiore
è la dimensione del gruppo più forte sembra essere la pressione ad uniformarsi.
Ciò è vero soprattutto quando ci interessa far parte di quel gruppo o quando sappiamo
che ci saranno future interazioni coi suoi componenti.
In
genere non si vuole fare brutta figura con persone che ci interessa frequentare
a lungo.
L’esperimento di Milgram
La
nostra voglia di uniformarci al pensiero comune può trasformarsi in una
obbedienza incondizionata nei confronti della autorità?
La
risposta sembrerebbe affermativa.
Nel
1961 lo psicologo statunitense Stanley Milgram ideò un esperimento per capire
se persone normali, messe in particolari situazioni, avrebbero obbedito ad
ordini in grado di mettere in pericolo la vita di una persona.
I
soggetti vennero reclutati tramite un annuncio sul giornale in cui si parlava
di un generico test sulla memoria.
Ogni
sessione sperimentale prevedeva la partecipazione di due persone (un insegnante
ed un allievo). Ciascuna coppia era formata da un vero partecipante all’esperimento
e da un collaboratore dello sperimentatore.
Tramite
un sorteggio truccato al soggetto osservato veniva sempre dato il ruolo di
insegnante.
L’insegnante
doveva presentare all’allievo alcune liste di parole da memorizzare per poi
interrogarlo.
Insegnante
ed allievo erano posti in due stanze contigue ma senza la possibilità di
vedersi.
La
persona da osservare veniva fatta sedere davanti ad un macchinario capace di
impartire scosse elettriche all’allievo.
L’insegnante
doveva punire gli errori dell’allievo tramite scosse di intensità crescente (da
molto bassa a potenzialmente mortale).
Le
scosse erano ovviamente finte ma tutto l’esperimento era stato disegnato in modo da farle
sembrare vere.
Lo
sperimentatore, nel ruolo di controllore, aveva il compito di spronare l’insegnante
ad impartire scosse sempre più forti all’allievo.
La
maggior parte dei soggetti arrivò a somministrare scosse potenzialmente
mortali, nonostante le urla di disperazione (finte) ed i silenzi per svenimento
(altrettanto finti) degli allievi.
L’esperimento
ha dimostrato che normali cittadini posti in particolari situazioni obbediscono
all’autorità anche quando gli ordini possono danneggiare il prossimo.
Tanto
più una autorità è socialmente legittimata tanto maggiore sarà il desiderio di
eseguire i suoi ordini.
La
vicinanza all’autorità aumenta il suo potere di influenza, così come la
vicinanza alla vittima lo riduce.
Alcune
caratteristiche di personalità sembrano rendere più facile l’obbedienza alla
autorità, così come il credere che la vittima sia responsabile (per
incompetenza, per ruolo, per classe sociale) di ciò le accadrà.
I
risultati dell’esperimento di Milgram sono stati criticati ma le sue ipotesi
sembrano confermate da indagini successive.
Individuo, gruppo, società
Tenendo
conto di quanto fin qui esposto possiamo affermare che la libertà dell’individuo
è fortemente influenzata dal suo contesto di riferimento.
La
società umana si basa sugli scambi comunicazionali, non può esistere una
comunità sociale priva di interazioni tra i membri che la compongono.
L’individuo
è sempre inserito in un gruppo e l’autorità è sempre espressione delle regole
sociali che strutturano la vita di un determinato gruppo di individui.
Può
essere a questo punto utile ricordare che, secondo Kurt Lewin, un gruppo è
qualcosa di diverso dalla somma delle individualità dei suoi componenti.
In
un gruppo si creano dinamiche che nascono dalla interazioni e della
comunicazioni.
Pensiamo
a gruppi di medici, infermieri, psicologi ed operatori sanitari, alla capacità
di questi insiemi di tirar fuori il meglio di ciascun componente e di arrivare
a risultati che nessuno singolarmente avrebbe potuto raggiungere.
Pensiamo
però anche alle bravate che un gruppo di adolescenti arriva a mettere in atto,
nessuno di loro preso singolarmente avrebbe agito in modo così pericoloso.
Possono
fare bene gruppi di qualsiasi età e di qualsiasi livello di competenza, così
come tutti i gruppi possono agire in modo irresponsabile, malvagio, criminale.
Possiamo
interrogarci sulle variabili che rendono alcuni gruppi più funzionali di altri.
Dobbiamo
però inizialmente definire cosa intendiamo per gruppo.
Un
individuo da solo rappresenta la singolarità.
Due
individui in relazione corrispondono a una diade.
Da
tre persone in su possiamo parlare di gruppo, anche le vere e proprie dinamiche
di gruppo sono osservabile in insiemi più ampi.
Un
aggregato di otto/dieci partecipanti è un piccolo gruppo.
Maggiore
è il numero dei componenti di un gruppo, più evidente sarà il risultato delle
dinamiche osservabili.
Possiamo
definire massa un gruppo composto da un numero elevato di persone.
In
una società complessa come quella attuale gli individui sono in relazione tra
di loro anche quando non si conoscono direttamente.
The Stanford Prison Experiment
Nel
1971 lo psicologo statunitense Philip Zimbardo volle analizzare il rapporto tra
istituzioni, ruoli sociali e comportamenti individuali.
Zimbardo
simulò la costruzione di una prigione negli scantinati della università presso
la quale insegnava.
Nell’esperimento
vennero coinvolte ventiquattro persone scelte tra una serie di volontari che
avevano risposto ad un annuncio in cui si cercavano dei soggetti per un
esperimento tra gli studenti universitari.
Vennero
scelti i soggetti considerati più equilibrati emotivamente e meno attratti da
comportamenti devianti.
Dodici
soggetti vennero casualmente inseriti nel gruppo dei carcerati ed i restanti soggetti
nel gruppo delle guardie.
Zimbardo
per l’esperimento fece realizzare apposite divise: per i carcerati larghe tute
con un numero stampato sopra e una catena alla caviglia; per le guardie vere e
proprie uniformi ,occhiali da sole, fischietto, manette e manganello.
Ai
carcerati furono elencate precise regole da rispettare mentre alle guardie
venne concessa ampia autonomia nella scelta dei modi per rapportarsi ai
detenuti.
L’esperimento
doveva durare sei giorni ma già al secondo giorno gli sperimentatori iniziarono
a notare strani comportamenti: i carcerati inveivano contro le guardie e quest’ultime
rispondevano in maniera molto dura.
Le
drammaticità dei comportamenti continuò ad aumentare nei giorni successivi:
tentativi di fuga dei prigionieri, punizioni corporali impartire dalle guardie,
scontri fisici.
Il
sesto giorno i carcerati iniziarono a manifestare veri e propri disturbi emotivi, mentre le guardie
continuarono nei loro atteggiamenti vessatori.
L’esperimento
venne interrotto un giorno prima della conclusione prevista (con la
soddisfazione dei carcerati ed il disappunto delle guardie).
Siamo
tutti potenzialmente malvagi? Siamo buoni perché non abbiamo avuto occasioni
per dimostrare la nostra malvagità? Senza regole ci trasformeremmo tutti in mostri?
Ma
non sono forse gli uomini a scrivere le regole?
Fine della prima parte
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