Quelo, Greta e la dottrina neoliberale della verità multipla (Seconda parte).
Di Pier Paolo Dal Monte
Seconda Parte
Seconda Parte
L’utopia neoliberale e il
riscaldamento globale
Come abbiamo detto, il collettivo di pensiero neoliberale è stato capace di
costruire un intero armamentario
di proposte epistemiche e politiche che, di fatto, hanno occupato tutto
lo spazio delle alternative possibili. Naturalmente, non stiamo parlando della banale e falsa
dialettica centro-destra/centro-sinistra, democratici/repubblicani,
conservatori/laburisti che, tuttavia, invade tutto lo spazio parlamentare delle
cosiddette “democrazie liberali”. No, stiamo parlando di un’operazione molto
più capillare e pervasiva di occupazione (obliterazione, quando questo non sia
possibile) di tutte le forme di pensiero e di azione, anche al di fuori della
“politica politicata”, che è riuscita a confezionare (con la complicità delle
anime belle del progressismo “di ogni forma e di ogni età”), non solo, una
panoplia di vacue utopie volte a sterilizzare le velleità politiche delle
masse, come, ad esempio, la fratellanza tra i popoli, la società senza
frontiere, il governo globale (o, con una maggiore vena distopica, le
corbellerie del post-umano e la moltiplicazione dei generi), inibendo, grazie
alla vacuità del fine, ogni possibilità di azione reale, ma - e qui sta la
genialità- a creare un catalogo omnicomprensivo di proposte “politiche”, in
grado di coprire l’intera gamma della “domanda” da parte del pubblico, con
obiettivi a breve, medio e lungo termine.
Per comprendere appieno quest’operazione, è bene fare un piccolo passo indietro
e spiegare brevemente un punto cruciale dell’epistemologia neoliberale. Essa ha
sempre respinto la falsa dicotomia dei liberali classici “laissez faire” di stato versus
mercato come dispositivi antitetici. Al contrario di questi ultimi, i
neoliberali non considerano il mercato un luogo di allocazione delle merci
(materiali o immateriali), ma un elaboratore di informazioni, il più efficace
ed efficiente elaboratore che si conosca, assai migliore di qualsivoglia entità umana (individuale o
collettiva)[1].
In secondo luogo, anche qui diversamente dal pensiero liberale classico (ed
alle sue moderne propaggini), l’ideologia neoliberale propugna uno “stato
forte” che, tuttavia, non abbia come compito principale (e neanche secondario,
per la verità) quello di controllare gli “animal
spirit” del mercato, ma quello –per così dire- di controllare se stesso,
ovvero, come direbbe Marx, agire da “comitato d’affari della borghesia”, il cui
scopo sia quello di promuovere, salvaguardare ed estendere gli ambiti del mercato.
Per svolgere questo supremo compito, lo stato deve operare con tutte le proprie
prerogative (compresa quella del monopolio della forza) per costruire una sorta
di totalitarismo del mercato (un telos
potenzialmente infinito), mediante una mercificazione sempre più estesa e
capillare dell’esistente.
Anche per ciò che riguarda il riscaldamento globale (che è di natura
“ecologico/termodinamica”), possiamo notare la differenza di approccio tra
neoliberali e liberali classici. Per questi ultimi, i problemi della biosfera
sono sintomi di malfunzionamento del mercato (market failure), la cui soluzione dovrebbe risiedere
nell’attribuire un “giusto prezzo” alle “esternalità” (inquinamento, ecc.),
alle risorse e ai cosiddetti “servizi degli ecosistemi” (approccio della Ecological Economics). Per i
neoliberali, invece, questo tipo di problemi è destinato a sorgere
ineluttabilmente, a causa dell’inestricabile complessità delle interazioni tra
la società e la biosfera, per comprendere le quali, la conoscenza umana è affatto
inadeguata.
Nell’arduo compito di ridefinire l’epistemologia sociale, il collettivo di
pensiero neoliberale non si è risparmiato, e ha adoperato tutte le “novità” della moderna
scienza, dalla teoria dei sistemi complessi alla termodinamica degli organismi
dissipativi, dal principio di
indeterminazione all’autopoiesi. D’altra parte, adottando ogni tipo di
posizione epistemologica alla bisogna, è difficile avere torto. Inoltre, è, senza dubbio, difficilmente
confutabile che le interazioni tra
società e natura siano straordinariamente complesse, osservazione, peraltro
ovvia, se si considera che esse costituiscono tutto il nostro mondo, quello in
cui ci troviamo ad esistere.
In realtà, il pensiero neoliberale adotta questa panoplia epistemologica in
maniera affatto opportunistica, adoperando la “complessità” pro domo sua: siccome non ci si può
affidare alla conoscenza umana per comprendere e prevedere questa multiforme e
diveniente realtà, vi è bisogno di una sorta di deus ex machina, di un diavoletto di Maxwell. Insomma, di una finzione retorica spacciata per verità:
un’ immagine idealizzata di mercato perfetto, spontaneo ordinatore dell’ordine
spontaneo e supremo elaboratore di informazioni, il motore immobile (ma, di
fatto, mobile) al quale si demanda il compito di trovare soluzioni a
qualsivoglia problema.
Siccome, tuttavia, quest’”ordine spontaneo” non è dato nei sistemi politici
(ci mancherebbe altro), è necessaria tutta la forza di uno stato forte che, col
suo imperio, possa spontaneizzare ciò che spontaneo non è (da qui la finzione
del “libero mercato”).
A questo punto, la strategia appare alquanto circolare: siccome non ci si
può affidare alle decisioni politiche per affrontare i problemi complessi (dei
quali fa sicuramente parte quello del cambiamento climatico), visto che la
capacità conoscitiva dei decisori è fallace per definizione, allora è
necessario che i decisori facciano un passo indietro, abdicando al loro compito
e affidino al mercato[2] -peraltro
con una decisione politica- il compito di decidere quali siano le soluzioni
migliori.
A volte, il problema è piuttosto restio a farsi incanalare con disinvoltura
nei meccanismi di mercato, quello del riscaldamento globale fa senz’altro parte
di questa categoria. In questi casi, la strategia, dovrà seguire un piano più
complesso, ed essere dipanata secondo vari stadi successivi. In questo caso,
possiamo individuare una strategia composta da tre stadi. La manipolazione
dell’opinione pubblica cambia, a seconda dello stadio nel quale ci si trova e va
dalla promozione del “negazionismo scientifico” alla creazione di fenomeni come
Greta Thurnberg o “Friday for Future” che sono le diverse
facce della medesima medaglia che costituisce la “risposta neoliberale” ai
cambiamenti climatici[3].
1) Il “negazionismo scientifico”
Il primo stadio consiste generalmente nel “prendere tempo”, per poter
elaborare gli stadi successivi. In casi come questo, la tecnica più efficace è
quella di instillare il dubbio, nell’opinione pubblica, che questo tipo di
problemi non sia correlato al modello economico della società attuale
(sovraconsumo, inquinamento, sovrasfruttamento della biosfera, ecc.), in poche
parole; il mercato non è mai colpevole (a tal proposito è sempre opportuno far
notare che, nei paesi del blocco sovietico, i problemi ecologici erano assai
più gravi).
Lo scopo di quello che è stato chiamato “negazionismo scientifico”,
promosso, principalmente, dalla Global
Climate Coalition e, poi, dalla Hearthland
Foundation, alle quali abbiamo già accennato, è stato quello di controllare
l’opinione pubblica che, allarmata dal problema del riscaldamento globale,
avrebbe potuto far pressione sui governi per affrontarlo con decisioni
politiche, ovvero, come abbiamo detto, a “prendere tempo” per elaborare
opportune soluzioni per far rientrare la questione nel recinto del mercato. La
soluzione “negazionista”, ancorchè di carattere temporaneo, aveva il vantaggio
di essere rapidamente dispiegabile, piuttosto economica e di distogliere
l’attenzione del pubblico dagli argomenti appropriati.
La strategia del “collettivo di pensiero neoliberale” vuole che la prima
risposta ad una sfida di natura politica, debba sempre essere di tipo
epistemologico[4]: è
necessario mettere in dubbio ciò che costituisce l’argomento di tale sfida, in
questo caso, negare il problema e temporeggiare indefinitamente con sterili
diatribe riguardo al merito (ovvero, se esista o meno il riscaldamento globale
su base antropogenica). Il “mercato delle idee” deve essere sempre irrorato col
dubbio, affinchè, come un efficace diserbante, esso possa far sviluppare solo
le piante (idee) desiderate. Questa tecnica, descritta dallo storico Robert
Proctor sotto il nome di “agnotologia”[5],
si è rivelata, nel tempo, assai efficace.
La dottrina neoliberale difende, formalmente, il diritto di chiunque di
sostenere qualsivoglia scempiaggine, con egual diritto (la “saggezza delle masse”)[6],
perché, in ultima analisi, l’ambito nel quale si stabilisce la verità è sempre
il mercato –che non è mai libero, come viene spacciato, ma è sempre controllato
da coloro ai quali fa comodo che venga spacciato come libero-, e non quella
congrega di esperti che rappresenta la scienza ufficiale. (a meno che non venga
usata per gli scopi politici opportuni). Di fatto, la dottrina neoliberale
coincide perfettamente con quella di Quelo: “la risposta è dentro di voi, epperò è sbajata” (a meno che non
coincida con la nostra)[7].
Tuttavia, questo primo stadio è ben lungi dall’essere sufficiente per
incanalare il problema nei meccanismi di mercato, pertanto, è necessario
elaborare gli stadi successivi facendo sì ch’essi si dispieghino mediante
un’offerta merceologica che sia in grado di coprire l’intero spettro della
“domanda” di “soluzioni”, ed è necessario che ognuna di queste implichi la
creazione di un profitto e, possibilmente, che estendano la sfera del mercato
ad ambiti mai toccati prima.
2) La “mercatizzazione” della
CO2 e l’accumulazione per espropriazione
Dopo questo primo stadio agnotologico, è necessario che, ad un certo punto,
il mercato faccia il suo ingresso. In questo caso, l’azione del mercato si
dispiega secondo due linee principali: la prima è costituita dalla
monetizzazione e dalla conseguente
finanziariazzazione dei “servizi degli ecosistemi”, ovvero dalla
creazione di permessi di emissione di CO2; la seconda, da quella che David Harvey ha definito “accumulazione
per espropriazione.
L’istituzione di mercati dei permessi di emissione costituì un’abile
strategia per costruire un nuovo
settore merceologico e finanziario, ma anche per convincere gli attori politici
del fatto che la risposta al problema dei cambiamenti climatici, ovvero la
diminuzione dell’emissione di “gas serra” dovesse competere ai mercati invece
che ai governi: si è “mercatizzato” qualcosa che avrebbe dovuto essere politico.
Naturalmente, questa “soluzione” non ha condotto ad alcun risultato, per
quello che era lo scopo dichiarato: di fatto non ha evitato l’emissione di una
sola molecola di CO2[8]. D’altra
parte, questo non era certo lo scopo reale, che viceversa, era quello di adoperare
la scusa del riscaldamento globale per creare un nuovo strumento finanziario
dal nulla, una merce virtuale che mercifica un dato fisico, peraltro
virtualizzato, un nuovo derivato da immettere nella grande fucina della
finanza, fornendo agli operatori un ulteriore strumento speculativo da
trasformare in moneta reale.
L’altro braccio della strategia a
medio termine è stato quello dell’accumulazione per espropriazione, che
merita qualche parola di spiegazione.
«La descrizione di Marx dell’”accumulazione
primitiva” comprende fenomeni come la mercificazione e la privatizzazione della
terra e l’espulsione da essa della popolazione contadina; la conversione di
varie forme di beni collettivi in proprietà privata; la mercificazione della
forza lavoro e la eliminazione delle alternative ad essa; processi di
appropriazione coloniale o neocoloniale di beni e risorse naturali;
monetizzaione degli scambi e tassazione della terra; commercio degli schiavi;
usura; il debito pubblico e il sistema creditizio»[9].
Si potrebbe pensare che questi tipi di accumulazione siano un retaggio del
passato, dei tempi del capitalismo nascente e di quelli in cui iniziava ad
affermarsi in maniera sempre più estesa e capillare
« A questo scopo si adottano infatti
metodi sia legali sia illegali […] Tra i mezzi legali si annoverano la
privatizzazione di quelle che un tempo erano considerate risorse di proprietà
comune (come l’acqua e l’istruzione), l’uso del potere di espropriazione per
pubblica utilità, il ricorso diffuso a operazioni di acquisizione, fusione e
così via che portano al frazionamento di attività aziendali, o, per esempio,
il sottrarsi agli obblighi in materia di previdenza e sanità attraverso le
procedure fallimentari. Le perdite patrimoniali subite da molti durante la
crisi recente possono essere considerate una forma di espropriazione che
potrebbe dar luogo a ulteriore accumulazione, dal momento che gli speculatori
acquistano oggi attività sottovalutate con l’obiettivo di rivenderle quando il
mercato migliorerà, realizzando un profitto»[10].
Una delle forme più sottili di “accumulazione per espropriazione” è quella
di drenare surrettiziamente denaro pubblico o, direttamente dalle “tasche” dei
cittadini, per generare un profitto privato, tramite una tassazione ad hoc,
oppure obbligare la popolazione ad un consumo tramite l’imposizione decretata dal potere dello stato.
Un esempio del primo tipo di pratica è, senza dubbio, quello degli impianti
di produzione di “energie rinnovabili” (eolica, fotovoltaica, idroelettrica,
ecc) che sono casi nei quali l’energia prodotta viene remunerata ad un prezzo
superiore a quello di mercato (altrimenti non sarebbero economicamente
sostenibili). In questo caso, il sovrapprezzo viene corrisposto dalla fiscalità
generale o da un esborso aggiuntivo nelle tariffe delle forniture elettrice.
Se si eccettua la sparuta produzione (in termini di MW/h) degli impianti ad
uso familiare, la più parte della generazione di elettricità, da queste fonti,
proviene da grandi impianti, per i quali l’investimento viene sostenuto da grandi investitori, in genere società
finanziarie[11].
Questo è un caso nel quale lo stato opera come perfetto agente del mercato:
invece che favorire, con un’azione diretta la tanto sbandierata “transizione
energetica”, esso si fa promotore di un sistema nel quale i profitti delle
società finanziarie sono a carico dei cittadini tramite un aggravio dei costi energetici
o mediante la fiscalità generale.
Un altro esempio di questo tipo di accumulazione, anche se un poco più
indiretto, è quello dei veicoli adibiti a trasporto stradale. In questo caso,
lo stato interviene modificando le regolamentazioni che regolano le emissioni
dei veicoli (specie quelle di Co2), inibendo la circolazione per quei mezzi che
non rispettano i parametri imposti. Questa tecnica di marketing condotta
tramite la forza della legge, costringe attualmente gli utenti a cambiare
veicolo tramite una sorta di obsolescenza programmata de jure, e apre la strada per nuove nicchie di mercato (veicoli
elettrici, ibridi, ecc.).
Nat, questo è un evidente trucco per creare nuove nicchie di mercato.
Ovviamente, questo è un altro un trucco per costringere i cittadini ad esborsi
di denaro, in un certo senso, coatti, senza alcun senso per ciò che riguarda le
emissioni di CO2 in quanto tali, se si considera che il processo di produzione
di un auto, è responsabile di una produzione di CO2 che è, in media, superiore
a quella che la medesima auto produrrà nel suo ciclo di utilizzo[12]
(verosimilmente, da questo punto di vista, sarebbe più “ecologico” tenere la
medesima auto per qualche decennio, ma questo non aiuta il mercato).
Naturalmente, per imporre alla popolazione questa visione, senza troppi
incidenti (cosa che, ad esempio, non è riuscita in Francia)[13],
è necessario predisporre l’opinione pubblica con massicce campagne
“moralizzatrici”, come quella per la quale stanno usando la ragazzina che
intimorisce quei “potenti della terra” che hanno tutto da guadagnare dalla
creazione di nuove nicchie di mercato.
Tuttavia, l’inesauribile cornucopia di idee del collettivo di pensiero
neoliberale, non si esaurisce qui, ma è lanciata sempre verso nuovi orizzonti.
3) De la geoingegneria ed altre
distopie neoliberali
Dato che il sistema dei permessi di emissioni e le miriadi di impianti ad
energia rinnovabile sono, ormai, soluzioni datate, anche se sono servite
egregiamente allo scopo, che era quello di estendere il dominio del mercato o
estrarre denari dalle tasche della popolazione e dei governi, è ora di superare
queste reliquie del passato con la soluzione neoliberale per il lungo periodo:
la geoingegneria.
Qui si arriva al nucleo stesso della Dottrina, la quale postula che
l’ingegno imprenditoriale, se lasciato libero di manifestare le proprie
pulsioni di “distruzione creativa”, può essere in grado di trovare soluzioni di
“mercato” per risolvere qualsivoglia problema.
Le idee non possono essere lasciate improduttive: quando vi è la
possibilità, esse vanno inserite nel discorso politico e perseguite con tutti i
mezzi. È quindi ora di aprire
nuove ed incredibili opportunità per trasformare in merce e mercato parti del
globo che nessuno pensava potessero avere questo destino (e questa
destinazione).
La geoigegneria rappresenta, il
volto futuribile e fantascientifico del neoliberalismo e, assieme ai
deliri sull’ingegneria genetica e sull’intelligenza artificiale, il suo volto
più distopico. “
Geoingegneria” è una sorta di definizione collettiva che individua un ampia
gamma di manipolazioni, su larga scala, volte a modificare il clima della
terra, per “correggere” i cambiamenti climatici. Essa comprende “soluzioni”
come l’aumento artificiale dell’albedo del pianeta, attraverso vari tipi di
“gestione” della radiazione solare
(tramite la diffusione di particelle riflettenti nella stratosfera,
l’installazione di specchi nell’orbita terrestre spaziali o la copertura dei
deserti con materiale riflettente); l’aumento del sequestro di CO2 da parte
degli oceani, tramite la stimolazione della crescita del fitoplancton
(“concimazione” degli oceani con nutrienti, mescolamento degli strati) o della
terraferma (seppellimento dei residui vegetali; introduzione di organismi
geneticamente modificati, oppure, ancora, l’estrazione e il confinamento della
CO2 direttamente al punto di emissione.
Questa sorta di ideazione delirante ha connessioni piuttosto strette col
“collettivo di pensiero neoliberale”, in quanto, diverse istituzioni che ne
sono emanazione diretta, come L’American
Enterprise Institute, Ii Cato
Institutute, la Hoover Institution,
il Competititive Enterprise Institute,
si occupano in maniera assai attiva nella promozione della geoingegneria. Lo
stesso “tempio accademico” del neoliberalismo, la Chicago School of Economics, ha pubblicamente appoggiato questo
delirio[14].
Naturalmente, questi “progetti” sono solamente allucinazioni lisergiche
portate ad un livello istituzionalmente riconosciuto: vedi alla voce: “lo dice
Lascienza”. Ma questa mirabolante scienza, in questi casi, può solo asserire
ipotesi che non hanno alcuna possibilità di essere provate sperimentalmente,
non vi è alcun di verificare ex ante gli assunti ipotizzati né,
tantomeno, gli effetti indesiderati. Qui il laboratorio è costituito
dall’intero mondo e l’ ex post
potrebbe essere una catastrofe di proporzioni inimmaginabili.
Ma, evidentemente, queste considerazioni non hanno il potere di scalfire
l’adamantina determinazione dei nostri apprendisti stregoni arsi dal sacro fuoco
di Prometeo. Ça va sans
dire che queste mirabolanti proposte agirebbero solo sugli
effetti e non certo sulle cause del problema, d’altronde, agire sulle cause
significherebbe mettere in discussione le basi sulle quali poggia il
capitalismo stesso mentre secondo l’epistème neoliberale, se il capitalismo ha
causato dei problemi, la soluzione è: più capitalismo!
Quindi, le soluzioni geoingegneristiche apportano enormi vantaggi, secondo
i criteri neoliberali, perché non limitano mercati consolidati (non sia mai
che, nel mondo, si producano meno pezzi di Hallo
Kitty, di cheeseburger, o che, a
Dubai, non si possa più sciare al coperto), ma espande gli ambiti del mercato
verso nuovi orizzonti: niente di meno che la privatizzazione dell’atmosfera e
del clima.
Perché, qualora non si fosse compreso, lo scopo è questo, nonché porre il
pianeta in ostaggio di alcune entità private (quelle che mettono a punto le
“soluzioni” protette da brevetto)[15],
affinchè ne possano trarre profitto da qualcosa che, magicamente, può diventare
merce con pochi tratti di penna, con la scusa di un “fate presto” globale
perché “ce lo chiedono le prossime generazioni”.
Con questo si chiude il cerchio. Nel mirabolante mondo di Quelo e Greta la teknè viene politificata mediante l’ennesimo ragionamento
circolare, perché i problemi sono troppo complessi per poter essere affrontati
con soluzioni che non siano tecniche (la risposta è dentro di voi, epperò è
sbajata), fino ad obliterare interamente lo spazio della politica che non sia
quello di mero “comitato d’affari della borghesia”. Perché non vi è alternativa
alle verità di una scienza che è divenuta dogma di una società che ha abbandonato ogni dogma che sia non sia quello
dell’ordine del mercato, “la provedenza che governa il mondo” agisce con mano
invisibile affinchè si possa manifestare il mistero della creazione.
La stessa scienza, ha abbandonato qualsivoglia funzione epistemica per
divenire un mero paradigma gestionale e non maggior significato, per ciò che
riguarda la conoscenza del mondo, di quanto ne abbiano le regole del Monopoli.
L’ordine del mercato è rimasto l’unica praxis e che orienti le azioni umane, e
l’unico tèlos, autotelico e
perpetuamente progressivo, al quale si volge lo sguardo di quella che, un
tempo, usavamo chiamare civiltà.
[1] Philip
Mirowski, Naturalizing the market on
the road to revisionism: Bruce Caldwell’s Hayek’s challenge and the
challenge of Hayek interpretation, Journal of Institutional
Economics (2007), 3: 3, 351–372
[2] Che include anche
quella scienza che ha dimostrato il proprio successo nel “mercato delle idée”,
anch’esso spontaneo come lo spacciatore alla dogana, di cui sopra.
[3] Cfr.:Philip
Mirowwski, Never let a serious crisis go to waste, cit.
[4] Cfr.:Philip
Mirowwski, Never let a serious crisis go to waste, cit.
[5] Cfr.
Robert N. Proctor, Londa Schiebinger (Eds.), Agnotology. The Making and Unmaking of Ignorance, Stanford University Press 2008
[6] Cfr. F. A. Hayek,
The use of knowledge in society, American
Economic Review, XXXV, No. 4; September, 1945, pp. 519-30.
[7] «First
and foremost, neoliberalism masquerades as a radically populist philosophy,
which begins with a set of philosophical theses about knowledge and its
relationship to society. It seems to be a radical leveling philosophy,
denigrating expertise and elite pretensions to hard-won knowledge, instead
praising the “wisdom of crowds.” It appeals to the vanity of every
self-absorbed narcissist, who would be glad to ridicule intellectuals as
“professional secondhand dealers in ideas.” In Hayekian language, it elevates a
“cosmos”—a supposed spontaneous order that no one has intentionally designed or
structured—over a “taxis”—rationally constructed orders designed to achieve
intentional ends. But the second, and linked lesson, is that neoliberals are
simultaneously elitists: they do not in fact practice what they preach. When it
comes to actually organizing something, almost anything, from a Wiki to the
Mont Pèlerin Society, suddenly the cosmos collapses to a taxis. In Wikipedia,
what looks like a libertarian paradise is in fact a thinly disguised
totalitarian hierarchy».
Philip Mirowski, Dieter Plehwe, The Road from Monte Pelerin, cit. pp
425-426
[8] “Maher, Sid.
“Europe’s $287 Billion Carbon Waste,” The Australian, November 23, 2011”
[9] David Harvey,
2004. The 'new' imperialism: accumulation by dispossession. Socialist Register
40, p. 74
[10] David Harvey,
L’enigma del Capitale, Feltrinelli, Milano 2011, pp.60-61
[11] In
genere con sede all’estero, se ci riferiamo all’Italia, ma anche ai cosiddetti paesi
in via di sviluppo.
[12] Shigemi Kagawa,
Klaus Hubacek, Keisuke Nansai, Minori Kataoka, Shunsuke Managi, Sangwon Suh,
Yuki Kudoh, Better cars or older cars?: Assessing CO2 emission reduction
potential of passenger vehicle replacement programs,
Global Environmental Change Volume 23, Issue 6, December 2013, Pages
1807-1818.
Maarten Messagie, Life Cycle Analysis of the Climate Impact of Electric
Vehicles, Transport and enviroment 2014.
H. Helms, M. Pehnt, U. Lambrecht and A. Liebich, Electric vehicle and
plug-in hybrid energy efficiency and life cycle emissions, 18th International
Symposium Transport and Air Pollution 2010
[13]
Ricordiamo che il fattore che ha innescato la rivolta dei Gilet Jaunes è stata
proprio l’inasprimento dei parametri per le emissioni veicolari. Naturalmente
queste riguardavano soprattutto I veicoli di una certa età, che sono quelli che
garantivano la mobilità della fascia di popolazione meno abbiente (in presenza
di concomitante smantellamento delle reti di trasporto pubblico di prossimità)
[14] Cfr.:Philip
Mirowwski, Never let a serious crisis go to waste, cit.
[15] “Cressy, Daniel.
“Geoengineering Experiment Cancelled Amid Patent Row,” Nature 15, May 2012”
“Specter, Michael. “The Climate Fixers,” The New Yorker, May 14, 2012”
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