La jatrocrazia come malattia terminale della scientocrazia
Di Pier Paolo Dal Monte
Viviamo in un tempo
peculiare, nel quale è stato portato a compimento un rivolgimento di lungo
periodo, iniziato alcuni decenni or sono, che ha portato alla trasformazione
della pratica governamentale, così come la conoscevamo, ovvero quella determinata,
almeno nelle intenzioni da una sfera politica che si presuppone informata da
una dialettica democratica.
Questa gerarchia
governamentale, nel corso del tempo, è andata sfilacciandosi, per essere sostituita,
progressivamente, da una governamentalità d’impronta meccanicistica, sempre più
determinata da coloro che sono
definiti “tecnici”, i quali, però, pur mascherandosi dietro questa
presunta –o semplicemente sbandierata- tecnicità, sono sempre stati latori di
un’agenda politica, sotto mentite spoglie, ovvero di un fine che si accordava
con una determinata visione del mondo.
In principio furono
“Les Economistes”, che furono il portato
di un’epoca nella quale una struttura economica preminentemente “materiale
(manifattura, produzione, trasformazione), con le proprie sovrastrutture
politicamente determinate, cedeva il passo ad una forma diversa, quella dell’accumulazione
immateriale della finanza, che necessitava di sovrastrutture culturali e
politiche di diverso tipo (globalizzazione, ecc), per imporre un sistema che,
nel tempo, si dimostrò assai meno favorevole per le popolazioni: un’accumulazione
predatoria nei confronti della ricchezza precedentemente accumulata mediante l’espansione
materiale che fu definita molto appropriatamente, da David Harvey, “accumulazione per espropriazione”.
Negli ultimi anni,
tuttavia, il raccontino economicista fatto di vincoli esterni e di descrizioni pseudo-naturalistiche
della realtà sociale, ha mostrato la corda. Secondo metodo scientifico terra-terra,
qualsiasi teoria che, dopo innumerevoli esperimenti (sociali, in questo caso) ,
non ne confermi la veridicità tende a perdere di credibilità; Quindi, non
riesce più convincere il popolo circa la “bontà” delle politiche che si
conformino a cotali teorie.
Pertanto, la
tecnica governale si è spostata su
un altro ambito disciplinare, assai più intimo e, al contempo, pervasivo,
ovvero a quello delle scienze della natura (in particolare, a quello che si
occupa della “natura vivente”).
La Scientocrazia è,
dunque, diventata l’estremo rifugio di un’azione di governo che non
riusciva più a manifestarsi con sufficiente efficacia tramite l’economicismo.
Questo
trasferimento di competenze governamentali
è stato accuratamente preparato nel corso dell’ultimo lustro, in maniera
ossessiva e quasi inavvertita dalla più parte delle genti, anche se vi erano
numerosi sintomi facilmente riscontrabili: che cos’era, forse, la famigerata
lotta alle “fandonie” (in italiano “fake
news”), se non il tentativo di imporre una ferrea ortodossia, da
congregazione per la dottrina della fede ad un ambito, quello scientifico, il
cui metodo, fin dai tempi di Galileo, si è sempre fondato sul dubbio e sul suo
superamento mediante la ricerca di risposte metodo?
La pandemia di
Covid 19 si situa perfettamente in questo contesto scientocratico, in maniera
che potremmo quasi definire “provvidenziale”, per il suo tempismo, fornendo l’occasione
(che, si sa, fa l’uomo ladro) per instaurare uno stato di eccezione proprio nel bel mezzo di una delle più gravi
crisi politiche, economiche e sociali del nostro paese (e del “sistema-mondo
tutto). In questo stato di eccezione,
la governamentalità surrogata si manifesta in tutta la sua goffaggine, a suon
di atti amministrativi e circolari ministeriali nelle quali, surrettiziamente,
si è gabellato un trasferimento di potere decisionale dalla sfera politica a
quella tecnica (naturalmente, espressione di quella scienza monodimensionale
propugnata dagli “esperti” cari al regime). Una vera e propria edpiedmiocrazia,
quindi.
Certo, nessuno nega
qui la natura emergenziale dell’emergenza, tuttavia non possiamo fare a meno di
notare che è stata messa in atto una pletora di provvedimenti contraddittori e
poco efficaci, i cui risultati stanno innanzi agli occhi di tutti. E non ci si
venga a dire che non vi è l’evidenza controfattuale, perché di “evidenze
scientifiche -o mancanza di esse) sbandierate dagli “esperti”, in assenza di qualunque
prova controfattuale, è piena la cronaca di questi mesi.
Di fatto, la sfera
politica ha preso la comoda strada di farsi portavoce di questi ventriloqui e
di demandare le decisioni ad un principio jatrocratico, il quale, tuttavia, doveva
scorrere nell’alveo di una
costruzione meta-politica edificata in precedenza.
Ed è alla luce di queste
considerazioni che è bene leggere il documento della SIAARTI[1]
sulle “RACCOMANDAZIONI DI ETICA CLINICA PER L’AMMISSIONEA TRATTAMENTI INTENSIVI E PER LA LORO SOSPENSIONE, IN CONDIZIONI ECCEZIONALI DISQUILIBRIO TRA NECESSITÀ E RISORSE DISPONIBILI”, ed il dibattito che ne
è conseguito, che si situa perfettamente in questo contesto
Ci pare che,
per certi aspetti, l’attenzione che fu dedicata a tale
documento sia stata alquanto eccessiva, dato che, la più parte di esso non
sembra essere altro che un modo elaborato e parafrastico di definire il vecchi
concetto di triage che è il metodo
comune di operare sia in un contesto di emergenza sia in caso di eventi
catastrofici. Non a caso fu formulato, per l prima volta nell’ambito della
chirurgia di guerra.
Esso costituisce, né
più, né , ne meno un metodo per definire i criteri d’accesso alle cure, nel
primo caso con priorità determinate dalla severità del quadro clinico (che è quello
adottato nei dipartimenti di emergenza/pronto soccorso); nel secondo,
determinate dalle possibilità di
successo o di efficacia delle cure (che è quello adottato nel caso dei
trapianti d’organo o nella medicina delle catastrofi). Nel primo caso è
determinante il “fattore tempo”, nel secondo il “fattore risorse”.
Non vi è quindi, a
nostro parere, alcunché di stigmatizzabile (ma neanche di particolarmente
cruciale), nel ribadire che, anche
nel caso dell’emergenza Covid 19 si possa arrivare alla necessità di adottare
un criterio di triage del secondo tipo,
piuttosto che del primo, ovvero, il documento non fa altro che ribadire il vecchio principio, descritto nel diritto romano che ad impossibilia nemo tenetur.
Perché, allora,
ribadire ciò che è ovvio, come si può leggere nel seguente passo del documento
in questione?
“Le
previsioni sull’epidemia da Coronavirus (Covid-19) attualmente in corso in
alcune regioni italiane stimano per le prossime settimane, in molti centri, un
aumento dei casi di insufficienza respiratoria acuta (con necessità di
ricovero in Terapia Intensiva) di tale entità da determinare un enorme
squilibrio tra le necessità cliniche reali della popolazione e la
disponibilità effettiva di risorse intensive.
È uno scenario in cui potrebbero essere necessari
criteri di accesso alle cure intensive (e di dimissione) non soltanto
strettamente di appropriatezza clinica e di proporzionalità delle cure, ma
ispirati anche a un criterio il più possibile condiviso di giustizia
distributiva e di appropriata allocazione di risorse sanitarie limitate”.
In realtà il
criterio di “idoneità clinica” e di “proporzione delle cure” si applica
quotidianamente , essendo entrambi
concetti compresi in quello, più ampio, di appropriatezza , che riguarda non
solo la condizione patologica, in quanto tale, ma in quanto riferita ad un
paziente specifico.
È bene non
dimenticare tuttavia, che il
criterio di appropriatezza è, per propria natura, un criterio soggettivo,
termine che non significa “arbitrario” ma, semplicemente, che è adottato dal soggetto,
in questo caso il curante, che giudica le condizioni “oggettive” del paziente.
Ovvero, è sempre il medico ad essere chiamato a valutare, in scienza e
coscienza, l’appropriatezza delle cure che, di volta in volta, è chiamato a praticare
ad ogni singolo paziente.
Qualora si
prendesse di trasformare il criterio di appropriatezza in qualcosa di avulso
dalla singolarità del paziente, ovvero, qualora si cercasse di oggettivizzarlo,
prescindendo, non solo dalla singolarità di questi, ma anche da quella medico
preposto a valutare l’ “idoneità” di una determinata scelta terapeutica (o
astensione da essa), esso assumerebbe un carattere normativo e non più medico3.
Ebbene, nel
documento della SIAARTi, si evidenzia (forse implicitamente) la velleità di
linee guida “normative” per i propri associati, normatività che andrebbe a
sostituire quelle aventi propriamente “forza di legge”, o addirittura dettati
costituzionali:
“Lo scopo delle raccomandazioni è anche
quello:
(A) di sollevare i clinici da una parte della responsabilità nelle scelte, che possono essere emotivamente
(A) di sollevare i clinici da una parte della responsabilità nelle scelte, che possono essere emotivamente
gravose, compiute nei singoli casi;
(B) di rendere espliciti i criteri di allocazione delle
risorse sanitarie in una condizione di una loro straordinaria scarsità.
- Può rendersi necessario porre un limite di età all'ingresso in TI. Non si tratta di compiere scelte meramente di valore, ma di riservare risorse che potrebbero essere scarsissime a chi ha in primis più probabilità di sopravvivenza e secondariamente a chi può avere più anni di vita salvata, in un’ottica di massimizzazione dei benefici per il maggior numero di persone”.
Ed è qui che
risiede l’ “ingenuità” che informa questo documento, perché un criterio
normativo di tal fatta non può essere stabilito in un contesto “tecnico” ,
quale è quello medico, del tutto inappropriato all’uopo, ma in quello
legislativo che è, in ultima analisi, “politico”.
A questo punto è
bene fare alcune considerazioni per cercare di svolgere un poco il pericoloso
ginepraio nel quale questo documento, pur con le migliori intenzioni, rischia
di invischiare non solo la categoria alla quale si rivolge (e sarebbe il meno),
ma l’intero rapporto tra pratica medica e sfera politico-normativa.
L’epidemia di Covid
19 ha determinato una grave emergenza , tale da sopraffare, in determinate aree,
la capacità di reazione efficace del sistema sanitario. In particolare, il “collo
di bottiglia” è costituito dalla capacità di accesso e cura dei reparti di
terapia intensiva, i quali si sono trovati, drammaticamente, nella necessità di
effettuare un triage dovuto alla
scarsità di risorse.
Come sottolinea
Giuseppe Gristina, uno degli autori del documento, sul Quotidiano
Sanità del 9 marzo 2020:
“Dopo più di dieci anni di definanziamento
del SSN pari a circa 37 MLD di euro e la riduzione del 30% dei posti-letto
ospedalieri, trovarsi nella condizione di dover scegliere tra due o più malati
quale ricoverare perché il posto disponibile è uno solo, è un evento comune
per gli anestesisti-rianimatori”.
Non si può, quindi,
sorvolare sul fatto che questa situazione non è solo dovuta all’emergenza
epidemica, ovvero all’elevato numero di pazienti, con condizioni estremamente
severe, che accedono ai nosocomi, nell’unità di tempo, ma anche a causa delle
decisioni scellerate effettuate dalla classe politica, negli ultimi decenni,
che hanno portato ad un “ridimensionamento” e alla “riorganizzazione” del
Servizio Sanitario Nazionale (peraltro, regionalizzato), condizioni che si sono
esacerbate con l’avvento del governo Monti e di quelli successivi,
caratterizzate da tagli e accorpamenti, chiusura di nosocomi e imposizione del
criterio del “risparmio” sopra ogni altro.
Va anche ricordata,
a questo proposito, la diminuzione del personale sanitario, causato non solo dalle
riduzioni dei finanziamenti al SSN, ma anche dagli ostacoli all’accesso alle
facoltà di medicina ed alle scuole di specializzazione (numero chiuso definito
con criteri eccessivamente restrittivi), dovuti entrambi all’imposizione delle
normative europee in materia.
Di fatto, si è
subordinato il criterio di qualità delle cure, secondo criteri medici (gli
unici che dovrebbero essere adottati, in questi casi), a logiche meramente
economicistiche, che non riguardano soltanto il contenimento delle spese, ma si
dipanano verso fantasiosi orizzonti aziendalistici come il criterio di
produttività o di efficienza economica (numero di prestazioni per unità di
tempo, per fornire solo un esempio
tra i tanti).
Naturalmente, non
stiamo dicendo che i limiti economici non esistano, così come esistono i limiti
termodinamici (dei quali, l’estremo, per gli esseri viventi, è la morte),
tuttavia siffatti criteri, quando diventino preponderanti, esulano da quelli
che dovrebbero essere propri della pratica medica.
I rapporti tra
Ars medica e politica
A questo punto,
tuttavia, si pone una questione cruciale, ovvero quella del surrettizio ed
improprio spostamento di competenze tra la sfera tecnica (medica, nella
fattispecie) e quella politica.
Questo “spostamento
si è manifestato in diversi ambiti, ed è un portato della concezione
neoliberale dello stato , che vede quest’ultimo come un’azienda nella quale vi
sono diverse sfere di competenza governate da una gerarchia meramente
funzionale volta a perseguire il fine aziendale (la “mission”, per i fessi).
Tuttavia,
contrariamente a quanto sostengono le sciocchezze economicistiche ribadite in
questi ultimi decenni, lo stato funziona in modo diverso, le decisioni politiche (e la formazione
dell’accesso alle cure è una decisione politica) non devono spettare ai tecnici
ma ad entità èlette dalla cittadinanza che operano con vari sistemi di
deliberazione e di controllo: nessuna visione particolare tantomeno quelle
degli “esperti” o dei “tecnici” deve poter decidere circa l’indirizzo
di un sistema sociopolitico complesso come può essere uno stato.
«Sarebbe pertanto esiziale farsi guidare in
modo prevalente da costoro, nell’illusione di determinare, mediante le «verità scientifiche» quali
dovrebbero essere le “buone politiche”.
Anche in questo caso, la sfera politica abdicherebbe al suo ruolo per
sottomettersi a ciò che abbiamo definito “vincolo esterno”»: la scienza, o meglio, “Lascienza”», intesa come principium auctoritatis che si
esplicita tramite intermediazione degli «esperti, non può essere il principium individuationis della
sfera politica che, per propria natura6, è il punto di incontro e mediazione
di visioni e interessi diversi, spesso contrapposti»[4]
La favoletta
imposta negli ultimi decenni dice: “lo
stato deve farsi sempre più piccolo, ritirarsi da molte delle sfere di
competenza occupate precedentemente, quindi, sta a voli tecnici e
amministratori decidere”
La sfera politica
ha deciso che si dovesse tenere una determinate linea economica (ce lo chiede l’Europa).
Ha quindi creato una condizione di scarsità artificialmente indotta, per ciò
che riguarda il Sistema Sanitario, dotandolo di risorse che erano a malapena
sufficienti (e, molto spesso non erano neppure) per le condizioni di ordinaria
amministrazione.
Pertanto si sono
rivelate drammaticamente insufficienti (tralasciando I pasticci effettuati dal
governo centrale) in una condizione di emergenza come quella provocata dall’epidemia
di Sars Cov 2.
Tuttavia, come ben
rileva Ivan Cavicchi (Quotidiano
Sanità, 12 marzo 2020):
«Mi limito a
rivolgere agli anestesisti una domanda: le condizioni limitate in cui lavorate,
a partire dal dato cronico dell’insufficienza del numero delle terapie
intensive e dalla mancanza di anestesisti, vi è stato imposto dalla politica,
tuttavia per tacita convenzione esse vi hanno dato pragmaticamente il potere di
vita e di morte sulle persone, potere, che la politica tollera perché voi
anestesisti vi prendete, per suo conto, delle responsabilità anche di ordine
morale indicibili e che a mio parere vanno ben oltre il vostro mandato
deontologico. […]
Quindi, Io ritengo che la politica e questo Stato si
devono riprendere la responsabilità morale di decidere oltre l’ordinaria
complessità clinica, come trattare i malati cioè se dare o non dare loro il
diritto di vivere»
Nonostante i limiti
di cui abbiamo parlato e nonostante che questa drammatica esigenza di selezione
sia dovuta, in gran parte ad un’agenda politica che si è dipanata nel corso
degli ultimi decenni, la sfera politica ha scientemente scaricato la
responsabilità sui medici (come, nei diversi ambiti, su tante altre categorie
agenti nel servizio pubblico), imponendo loro l’onere della scelta e l’onere di
una responsabilità che va ben oltre l’ambito, non solo deontologico, ma anche
del dettato costituzionale (la discriminazione della “vita degna di essere
vissuta”).
Ricordiamo che l’articolo
32 della Costituzione stabilisce che “La Repubblica tutela la salute come
fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività`, ovvero che
tutti I cittadini siano uguali e vadano curati senza discriminazioni a priori.
La risposta dei
medici a queste implicito ed improprio trasferimento di competenze e responsabilità,
dovrebbe essere un fermo "Non
debemus, non possumus, non volumus":
Non dobbiamo sostituirci al legislatore, non
possiamo essere chiamati ad ignorare l’articolo 32 della Carta Costituzionale, perché
non è nostro compito decidere chi sia “meritevole” delle cure, se non secondo
criteri strettamente clinici.
Non vogliamo essere costretti ad operare in
un contesto disegnato per seguire i soli contesti economicistici che rimandano
ad assurdi vincoli di bilancio, che non sono oggettivi, ma rispondono ad una
visione del mondo imposta dall’esterno (“ce lo chiede l’Europa) e costruita da
generazioni di politici che hanno fatto del tradimento la loro professione di fede.
Ma, soprattutto non
dobbiamo accettare questo scarico di responsabilità da parte della sfera
politica, la quale sta nascondendo la propria inadeguatezza e le proprie
pulsioni totalitarie dietro ad una raffazzonata scientocrazia, ovvero dietro ai
dettami di quella selezionato combriccola di “esperti” la cui scienza non ha
nulla di scientifico ma è portato dell’ agenda politica dei loro padroni,
creando il cortocircuito di una
politica che finge di dipendere da una scienza monodimensionale la quale, a propria
volta, dipende da una determinata visione politica (e abbiamo già visto queste
contorsioni quando, nella veste di tecnici, vi erano “Les Economistes”).
1 Società
Italiana di Anestesia Analgesia Rianimazione e Terapia Intensiva
3 Il Pedante, P.P.
Dal Monte, Immunità di legge, Arianna Editrice, Cesena 2019, p. 173
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