Il “politicamente corretto” non è una questione di rispetto

Di Paolo Lugli

Nella comune percezione, quando si sente parlare di “politicamente corretto” si pensa sempre ad una costruzione semantica atta ad impedire la formulazione, ed esposizione, in pubblico di concetti che potrebbero ledere od offendere la sensibilità di una o più categorie di persone.
In realtà non è solo questo e bisogna porre molta attenzione a quali siano le categorie da tutelare, secondo questo “strumento”, per valutarne meglio la funzione.
Vediamo negli ultimi decenni abusare di parole quali “sessista”, “omofobo” e tutto il repertorio politicamente corretto per “condannare” frasi od azioni che tendono a “discriminare” una categoria di persone, a seconda del criterio di raggruppamento che si dà alla parola “categorie”, ed alla contestualizzazione dell’atto “moralmente” condannato, creando una certa aleatorietà riguardo all’oggetto discriminatorio.
In realtà lo scopo non è quello di tutelare determinate categorie, ma è esattamente l’opposto: individuare e catalogare persone, non standardizzate al pensiero o appartenenza di categorie fallacemente “tutelate” dai padroni del discorso, e mettere i non conformi alla berlina per frasi o atti che non si confanno a criteri sempre più restrittivi, per non incorrere nel “politicamente scorretto”, ergo  per scoraggiare chiunque si appresti ad andare “fuori dal seminato” (colpirne uno per educarne cento).
Ciò su cui si fa leva sono gli artificiali sensi di colpa, costruiti massmediaticamente, che in noi dovrebbero produrre un atto non conforme agli standard ormai acquisiti del politicamente corretto, ovvero, per non urtare le sensibilità di alcuna delle categorie tutelate, da certe istanze, bisogna impedire a chiunque di farsi un proprio pensiero in merito o, comunque, limitare questo entro spazi prestabiliti grazie a strumenti verbali preconfezionati che suonano quasi come epiteti in caso di non condivisione del pensiero unico assunto  (razzista, fascista, sessista, omofobo ecc.), azionati da un trigger alla bisogna in mano ai padroni del discorso.
Per esempio, un film come “Il Vizietto”, (indegnamente scopiazzato dai nostri “liberatori” di oltre Oceano) non sarebbe di possibile realizzazione al giorno d’oggi, in quanto anche il solo ironizzare su una questione, che offre vari spunti di riflessione, diviene strumento per tacciare di omofobia chiunque anche possa trattare con semplice ironia la vicenda.
Vediamo invece locandine di serie di Netflix dove Giovanna D’Arco ha le fattezze di un’africana nera o, lo stesso, per quanto riguarda “Troia” con ellenici di colore: un sistema di agire anche sulla narrazione della storia come se sempre fossimo stati un continente multirazziale e multiculturale, quando non vi è niente di più antistorico. E allora si accetta tutto questo per non essere tacciati di “razzismo” ma, a questo punto, il disegno si fa sempre più chiaro, una società sterilizzata da identità, storia, sessualità, religione, atomizzata in quanto composta da troppi elementi eterogenei, grazie all’immigrazione, e potenzialmente anche conflittuali tra loro, se non messi nei giusti recinti. E’ il melting pot pansessuale tanto amato dai globalizzatori, ingegnerizzato proprio per non permettere di avere alcun tipo di identità, né etnica, né religiosa, e ancor meno sessuale in quanto il pansessualismo, tanto promosso, altro non è che caos indotto nella nostra sessualità volto a stimolarne le sole pulsioni vissute esclusivamente come semplice valvola di sfogo.
E’ utile analizzare, con gli strumenti che ci ha fornito Epicuro, la direzione dove i padroni del discorso hanno intenzione di indirizzarci, spogliandoci dei piaceri catastematici (quelli stabili, durevoli e costruttivi) a vantaggio di quelli cinetici (effimeri e a breve esaurimento temporale utilizzati in questo caso come nella descrizione sopra della sessualità). Non è un caso che Mario Monti abbia parlato, qualche anno fa, dell’abitazione di proprietà come di un ostacolo al suo mondo ideale, lo stesso vale sicuramente per il matrimonio ed ogni forma di radicamento in quanto, questa globalizzazione, richiede mobilità incondizionata di persone, merci, e soprattutto capitali.
La prima vittima di questo melting pot, di questa metropolizzazione mondializzata coatta è la bellezza. Con la cancellazione della storia, tutto il patrimonio letterario, filosofico, artistico, architettonico, musicale viene messo in secondo piano rispetto alle priorità indotte dalla comunicazione massmediatica per poi essere cancellato in quanto ostacolo alla soppressione collettiva del pensiero critico. La cacofonia odierna che viene spacciata per musica è sempre più tribale, triviale e primordiale, senza melodia; una banana incollata con il nastro adesivo a un muro diventa “opera d’arte” in sfregio al nostro splendore rinascimentale e barocco, opinionisti ben più che discutibili e “influencers” assassini di cultura.
Sostanzialmente il “politicamente corretto” è uno degli strumenti più subdoli e funzionali a uno stato di cose innaturale che per esistere ha bisogno di essere imposto con la forza: questa globalizzazione distopica volta all’annichilimento assoluto di ogni volontà al di fuori del recinto di quel che ci è “gentilmente” concesso.



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