Quelo, Greta e la dottrina neoliberale della verità multipla (Prima parte)
Di Pier Paolo Dal Monte
“C’è grossa crisi”, direbbe Quelo, quella sorta di
parodistica crasi di santone e telepredicatore che fu interpretato da Corrado
Guzzanti.
La crisi, è l’”ospite inquietante” dei nostri
tempi, accompagna sempre qualunque presente, con un montante subentrare di tante
crisi: Leconomia, Lecologia, Lademografia, Lemigrazioni, Lapovertà, Lepidemie,
Linflazione, Ladeflazione... Un’incalzare di crisi che riduce i poveri esseri
umani come tanti pugili suonati che, incapaci di reagire, ricevono tutti i colpi che i mezzi di
informazione riversano sulle loro povere menti.
Ovviamente, ora non possiamo parlare di tutte le
crisi portate alla ribalta dall’inesauribile cornucopia dei mezzi di comunicazione;
ci concentreremo, pertanto, su una sola di esse che, periodicamente (e ora,
anche, prepotentemente), viene portata all’attenzione dell’opinione pubblica,
ovvero quella che viene definita “crisi climatica” o “riscaldamento globale”,
che dir si voglia.
Questa volta, per creare sgomento nelle vittime
della mitologia mediatica, su questo “fantasma che si aggira per il mondo”, non
è stato utilizzato uno scienziato dal linguaggio algido e un po’ astruso, non
un politicante imbolsito alla Al Gore, o un attore Hollywoodiano al guinzaglio
(che, non si sa mai, avrebbe potuto essere fotografato alla guida di una
Lamborghini o a bordo di un jet privato). No, niente di tutto questo, questa
volta gli sceneggiatori delle unità di creazione delle crisi si sono superati e
hanno tirato fuori dal cilindro un personaggetto ideale per emozionare le
infantilizzate masse postmoderne: una povera ragazzina iposviluppata e
autistica (seppur di basso grado[1])
che sostiene di percepire (non si sa con quale organo di senso) l’aumento di
CO2 nell’atmosfera (che si calcola in parti per milione). Insomma, una “testimonial”
che ha la presenza scenica di Topo Gigio e l’apoditticità predittiva del Mago
Otelma, la quale, però, parla ai “potenti della terra”.
Tanto di cappello agli sceneggiatori: con ingredienti così scarsi, sono
riusciti a creare un manicaretto mediatico di portata mondiale, che ha dato
origine ad un “movimento” di pari portata, il cosiddetto “Friday for Future”
(insomma, un weekend lungo), spontaneo come può essere la disinvoltura mostrata
da chi cerca di passare una frontiera con una valigia di cocaina nel bagagliaio.
E così, è stata creata una nuova forma di “Fate
presto!”[2]
di portata globale, un cosmico “vincolo esterno”, uno stato di eccezione
planetario al quale subordinare le politiche di quello che, un tempo, si
chiamava “occidente”, perché pare che il resto del mondo se ne fotta bellamente
della cosiddetta “emergenza climatica”.
Per la verità, questa “emergenza” non è poi così
emergente, come vorrebbero far credere
i registi dell’odierna intemperie, visto che il fenomeno è studiato fin dagli
anni ’50, quando si iniziò a parlare dell’impatto dell’aumento della CO2 su
base antropogenica[3]. Il fenomeno
divenne noto all’ opinione pubblica mondiale nel 1988, in occasione di un’audizione al
Congresso degli Sati Uniti di James
Hansen, climatologo della Columbia
University, che lanciò un allarme circa il rischio di riscaldamento globale dovuto, appunto, all’aumento
dei “gas serra”. Nello stesso anno venne istituito dall’ONU l’IPCC.
A tale allarme fece rapidamente seguito la risposta
“negazionista” dei giganti dell’industria energetica (ai quali si unirono
svariati settori merceologici), che diedero vita ad un centro studi, la Global Climate Coalition (1989-2001)[4],
col compito di confutare e contrastare le conclusioni dell’IPCC, adottando
quindi la tipica strategia neoliberale (anche questo verrà elucidato in
seguito) di mettere “scienza contro scienza”. Dopo lo scioglimento della GCC,
il testimone venne passato ad altre entità, tra le quali, è bene ricordare, lo
Hearthland institute[5].
Nella seconda metà degli anni ’90 il tema del
riscaldamento globale fu oggetto di un’attenzione crescente, da parte dei mezzi
di comunicazione, che andò vieppiù intensificandosi nei primi anni del nuovo
secolo, subendo un brusco arresto in occasione della crisi finanziaria del
2007/2008 e della recessione economica conseguente. Ubi major, minor cessat e, nel sistema capitalistico, il major è sempre e comunque legato a
questioni economiche; naturalmente questo non significa che gli altri problemi
non siano
considerati tout court –in fondo, nonostante ciò
che asserì quel sempliciotto di Fukuyama,
la storia non è finita- ma ciò dovrebbe far sorgere qualche domanda circa il
motivo per il quale un tema così cruciale, quale dovrebbe essere il
riscaldamento globale, salti fuori solo periodicamente. E, si badi bene, non ne
facciamo una questione di merito, ovvero se vi sia o meno un’emergenza climatica,
ma, sempre e soltanto, una questione di metodo: un’emergenza dovrebbe essere
sempre tale, ossia impellente ed improcrastinabile, qualsivogliano siano le
condizioni economiche o politiche concomitanti. Se, invece, tale emergenza
assume un carattere “intermittente”, sorge il sospetto che, coeteris paribus (ovvero non mettendone
in dubbio la veridicità), lo scopo principale di questa periodica comparsa sia,
ancora una volta, quello di indirizzare l’attenzione delle masse verso la
direzione desiderata da chi controlla il sistema (i famosi “potenti della terra” intimoriti dalla ragazzina che
percepisce l’aumento di CO2).
È dagli anni ‘60 che si denuncia l’esistenza di
gravi problemi ambientali[6]
(non solo climatici), ed è dal decennio successivo che si è iniziato a colorare
l’attività economica con una sfumatura “ecologica”, a tingerla di verde (colore
che stava bene con tutto, prima che se ne appropriassero i famigerati populisti
padani), il cosiddetto “green washing”,
che è anche definito, con lucuzione più elegante, “sviluppo sostenibile”,
ineffabile ossimoro che ha il pregio di suonare assai bene e non significare
alcunché, visto che i due termini del sintagma non sono connotati da
definizioni precise.
“Sviluppo” presuppone un telos, un fine cui volgere, mentre “sostenibile”
necessita un termine di confronto: sostenibile per chi? Per cosa? Rispetto a
cosa? Come? E via dicendo.
In mancanza di queste precisazioni, rimane solo un
motto epitomico del politicamente corretto che testimonia la meravigliosa
abilità del capitalismo nel trasformare tutto, anche i fattori apparentemente
negativi, come l’inquinamento e la crisi della biosfera, in nuove nicchie di
mercato: in questa incessante opera mimetica e reificante è riuscito a creare,
finanche, una disciplina di studio dal nome di “Ecological Economics” (con tanto di rivista dedicata[7])
ispirata dagli studi di Nicholas
Georgescu-Roegen[8] (e,
successivamente di Hermann Daly) che
cercarono di evidenziare l’incompatibilità dei parametri termodinamici con
quelli economici. Come tutte le buone intenzioni, questi studi non hanno fatto
altro che lastricare le vie dell’ inferno sfociando, da un lato, nella ricerca
di un valore monetario dei “servizi degli ecosistemi” (Robert Costanza) e,
dall’altro, come si diceva, nella creazione di nuove nicchie di mercato
surrettiziamente denominate “bio”, “green”, “eco”, o che dir si voglia.
Tutte queste operazioni di “lavaggio” hanno, non
solo, lo scopo, di creare nuove nicchie commerciali e trasformare le residue
parti di mondo in merce e mercato; ma anche quello di distogliere l’attenzione
dal vero tema, quello che conduce, inevitabilmente a tutti i problemi
particolari, dai quali è affetto il capitalismo, ovvero l’incommensurabilità
concettuale e, ineludibilmente fattuale, tra parametri economici e mondo
fisico che, come ben comprese
Marx, risiede nella primazia del valore di scambio sul valore d’uso (o, prima
di lui, Aristotele, quando distinse tra oikonomia
e crematistica).
Siccome il fondamento del capitalismo poggia
sull’accumulazione esponenziale di mezzi monetari (il capitale) che è,
virtualmente, infinita, ma che si deve manifestare, giocoforza, in un ambiente
che dispone di una quantità di materia che è data, è facile comprendere come
questo fatto possa giungere a provocare qualche problema.
La
gabbia epistemica del neoliberalismo
Partendo da queste premesse, possiamo ora parlare
di come le questioni di cui sopra siano inserite nel quadro epistemico che
caratterizza il capitalismo odierno, la cui forma è stata plasmata da ciò che è
stato definito “neoliberalismo”. Come ha documentato Philip Mirowski[9]
(e, in parte, anche Michel Foucault[10],
sebbene non in modo così esplicito), il nucleo del pensiero neoliberale non è
tanto economico quanto epistemologico e si è andato storicamente a connotare
come un vero e proprio “Collettivo di Pensiero”, come asserì Dietrich Plehwe[11]
(prendendo spunto dagli scritti di Ludwik
Fleck che descrisse l’impresa scientifica come formata da “una comunità di
persone che scambiano mutualmente idee o mantengono un’interazione
intellettuale”)[12].
Questo “collettivo di pensiero”, non solo è
riuscito a modellare la forma, alquanto amorfa, del capitalismo dei nostri
giorni ma, soprattutto, a rendere inefficaci tutte le critiche che sono state
rivolte ad esso, confinandole in una gabbia epistemica dalla quale non
potessero sfuggire, tramite la creazione di una vera e propria ragnatela di
manipolazioni cognitive che danno la forma visibile del nostro mondo.
Non ha quindi molto senso il considerare (come,
peraltro, fanno molti), questo fenomeno come un orientamento economico o, tantomeno, di spiegarlo con le
obsolete categorie del pensiero politico del secolo scorso ( “destra” politica,
conservatorismo, liberalismo, ecc.).
Quest’ equivoco spiega, in larga parte,
l’insuccesso dei movimenti che criticano e cercano di contrastare la fisionomia attuale del
capitalismo (che viene definita “liberismo” o “neoliberismo”)[13],
nel quale non sono state mantenute le promesse che sembravano implicite nei
“trent’anni gloriosi” del dopoguerra, quando appariva ineluttabile un futuro
progressivo di benessere ed uguaglianza per tutti (almeno nei paesi del
cosiddetto “capitalismo avanzato”). Non solo nulla di tutto questo si è avverato,
ma non si è neanche mantenuta una sorta di “stato stazionario” nel quale si
fossero consolidate le “conquiste” precedenti. Viceversa, in tutto il mondo
occidentale, si è assistito ad una progressiva diminuzione del benessere (che
sta portando alla scomparsa della “classe media”), ad una riduzione dei servizi
e ad una polarizzazione sempre maggiore della ricchezza.
La più parte delle critiche si è limitata a
considerare lo stato attuale della nostra forma-mondo come una sorta di
malattia benigna in un organismo, altrimenti, sano, la cui terapia
consisterebbe in una sorta di ripristino dello status quo ante (confondendo il
mezzo con il fine), una sorta di irenico riequlibrio da ottenersi grazie ad un ripristino di efficaci
regolazioni del mercato, ad un’economia che torni sotto il controllo degli
stati, nella quale si
riaffermi il primato della manifattura sulla finanza (il mito dell’”economia
reale”: un’altra chimera fatta da domini incommensurabili) ma, soprattutto, che
“rimetta i debiti ai debitori” (la Grecia, i paesi poveri, ecc.).
Questa carenza di analisi ha fatto sì che, i
movimenti di cui sopra, si siano cullati nell’illusione che fosse sufficiente
mettere in scena azioni di protesta, che “sorgono dal basso”[14],
“contro il crudele e distorto stato del mondo”[15],
per sperare di contrastare efficacemente lo status
quo. Viceversa, ciò che è avvenuto nel regno della realtà, è che quasi
tutti questi movimenti di protesta (dal movimento no global alle varie “rivoluzioni colorate”) si sono rivelati, nel
corso del tempo, abili maskirovka che hanno mantenuto sotto controllo il malcontento e
ostacolato vieppiù la possibilità di contrastare il sistema.
È difficile per coloro che sono spinti
dall’afflato di “cambiare il mondo” credere che la “spontaneità” di tali
proteste sia, in realtà la messa in scena di un copione scritto da altri, un
prodotto pronto per essere messo sul “mercato delle idee”. Ma il meraviglioso
mondo, creato dal collettivo di pensiero neoliberale, funziona proprio così: esso
è stato in grado di creare un’epistemologia omnicomprensiva che permea la
cultura contemporanea con un coacervo di verità multiple, tutte ugualmente “vere”,
che sono in grado di coprire tutte le alternative possibili: dal conformismo
all’anticonformismo, dalla reazione alla rivoluzione, dal sistema
all’antisistema. Un regime caleidoscopico e proteiforme nel quale una critica
reale e sensata allo status quo non
ha alcuna base sulla quale poggiare (difficile combattere contro qualcosa che
non ha una forma definita, essendo in grado di assumere tutte le forme). Quando
il mondo è rappresentato, in ogni suo aspetto, con un’immagine distorta, è
quasi impossibile percepire questo ribaltamento: come nella caverna platonica,
gli spettatori sono portati a credere che le immagini proiettate sulle pareti,
corrispondano al mondo reale.
Non affronteremo quest’ argomento nella sua
totalità, ma, nella seconda parte, ci soffermeremo soltanto sul problema del
riscaldamento globale, in modo che possa costituire un paradigma
esemplificativo della manipolazione suddetta (a meno che non si voglia davvero
credere alla favola di Greta e dei “potenti della terra”).
Fine della prima parte
[1] Si narra che sia
affetta dalla sindrome di Asperger
[2] Dal titolo del
Sole24Ore in occasione dell’avvento del governo Monti
[3] Gli studi più
rilevanti furono condotti da Hans Suess, Gilbert Plass, Roger Revelle e Charles
Keeling.
[4] Lista dei membri della Global
Climate Coalition.
American Electric Power, American Farm Bureau Federation, American
Highway Users Alliance, American Iron and Steel Institute, American, American
Forest & Paper Association, American Petroleum Institute, Amoco, ARCO, Association
of American Railroads, Association of International Automobile Manufacturers, British
Petroleum, American Chemistry Council, Chevron, DaimlerChrysler, Dow Chemical
Company, DuPont, Edison Electric Institute, Enron, ExxonMobil, Ford Motor
Company, General Motors Corporation, Illinois Power, Motor Vehicle Manufacturers
Association, National Association of Manufacturers, National Coal Association, National Mining
Association, National Rural Electric Cooperative Association, Ohio Edison, Phillips Petroleum, Shell
Oil, Southern Company, Texaco, Union Electric Company, United States Chamber of
Commerce.
Da:
Brill, Ken (June 20, 2001). "Your meeting with members of the
Global Climate Coalition", United States Department of State.
Brown, Lester R. (July 25, 2000). "The Rise and Fall of the Global
Climate Coalition". Brown, Lester R.; Larsen, Janet; Fischlowitz-Roberts,
Bernie (eds.), The Earth Policy Reader: Today's Decisions, Tomorrow's World.
Routledge, 2000.
Lieberman, Amy; Rust, Susanne (December 31, 2015). "Big Oil braced
for global warming while it fought regulations". Los Angeles Times.
McGregor, Ian (2008). Organising to Influence the Global Politics of
Climate Change. Australian and New Zealand Academy of Management Conference.
Mulvey, Kathy; Shulman, Seth (July 2015). "The Climate Deception
Dossiers". Union of Concerned Scientists.
Revkin, Andrew C. (April 23, 2009). "Industry Ignored Its
Scientists on Climate". The New York Times.
[6] probabilmente
dall’uscita del libro di Rachel Carson, Primavera
silenziosa, del 1962
[8] Il quale
fu, a propria volta influenzato dagli studi di Frederick Soddy in materia
[9] Cfr.
Philp Mirowski, Never let a serious crisis go to waste, Verso, London-New York, 2013.
Philip Mirowski, Dieter Plehwe, The Road from Monte Pelerin, Harvard
University Press, Cambridge, MT 2009.
[10] Foucault, M. The
Birth of Biopolitics. Lectures at the Collège de France, 1978–79, Palgrave
McMillan, Basingstoke 2008.
[11] Philip Mirowski,
Dieter Plehwe, cit., p. 4 sgg., 417 sgg.
[12] Fleck, Ludwik.
The Genesis and Development of a Scientific Fact. Chicago: University of Chicago Pres,
1979 ,P. 39
[13] Residuo
linguistico della sterile diatriba tra Benedetto Croce e Luigi Einaudi, che
data alla fine degli anni ’20 del secolo scorso.
[14] Ibid.
[15] Philp Mirowski,
Never let a serious crisis go to waste,
cit., cap. 6.
La Banalità della Verità potrebbe essere un titolo da affiancare a quello di Hannah Arendt. Non so a chi si riferiva Victor Serge quando in Memorie di un Rivoluzionario scriveva che quel che c'è di terribile quando si cerca la verità è che la si trova.
RispondiEliminaUno degli ultimi fatti gravi è stata l'uccisione di Soleimani, da più parti accusato di avere agito da o comunque favorito i terroristi. Pochi sono consapevoli che il più grande atto terroristico, gli attentati dell'11 Settembre, sono stati architettati dai servizi interni degli Stati Unni-ti o sUnniti, dagli Usa e getta. Chiari elementi possono offrire questa verità: una torre non può crollare in quel modo, addirittura alla velocità di un grave in caduta libera; tra l'altro di recente a Londra e a Santiago altri grattacieli hanno bruciato come torce per decine di ore e sono rimasti in piedi. E poi ci sono molti altri elementi facili da leggere (anche riportati nel video di Massimo Mazzucco) che indicano chiaramente una organizzazione interna dell'attentato.
In un precedente post sul blog del pedante avevo indicato un altro clamoroso falso, l'impossibilità tecnica della costruzione delle bombe atomiche. In effetti la valutazione tecnico-scientifica qui non è semplice, però chi ha indagato a fondo l'argomento ha fornito innumerevoli evidenze al contorno che smascherano la pretesa dei militari e dei governanti di possedere questi micidiali ordigni:
Akio Nakatani, Death Object: Exploding di Nuclear Weapon Hoax
Anders Bjorkman, heiwaco.tripod.com/bomb.htm
Mario M