L’autosufficienza delle cause efficienti vel l’ontologia tecnica



Di Pier Paolo Dal Monte


Il pensiero  dell’età moderna sì è progressivamente focalizzato sullo scopo di dominare il mondo. Questo scopo è, per sua natura, progressivo ed illimitato poiché, ovviamente, è impossibile piegare totalmente la natura alla propria volontà, per quando progredite siano le tecniche adottate per perseguire questo futile scopo.
Tuttavia, questa focalizzazione ha condotto compulsivamente  all’accrescimento continuo del “potere del fare” (tecnica) e dei “mezzi per fare” (economia, scienza) che vengono ritenuti gli scopi preminenti della società moderna. Viene dunque attribuito il rango di fine ad un mezzo: un indeterminato ed infinito “fare” che, col suo incessante produrre mezzi, in guisa di scopi, percepisce come fine l’indeterminato progresso verso cui tende questo moto incessante.
Naturalmente, uno scopo indeterminato –ed infinito-  equivale logicamente ad un’assenza di scopi, e questa è una delle forme di alienazione più gravi tra quelle che ammorbano l’umanità odierna.
Da qui si può comprendere la vaghezza di pensiero che contraddistingue il nostro tempo: l’infinitezza del fine (il progresso), fa sì che non sia possibile concepire altro che “fini intermedi”, ovvero sui mezzi per perseguire questa progressione infinita.
La tecnica, intesa come “capacità di fare”[1] è il mezzo progressivo per eccellenza e, al contempo, un fine a sé stante: se il progresso è il supremo fine ed il supremo giudizio di valore, la tecnica assume il ruolo di supremo criterio di valore.
Tutte le nostre azioni, come individui e comunità, vengono sempre valutate (finanche giudicate) secondo il criterio della tecnica. Non sarà più il semplice desiderio di muoversi od osservare il mondo che ci spingerà a fare una passeggiata nei boschi, ma saranno le tecniche dela salute (Lascienza) che ci diranno che si fa perché è salutare, quanti passi è necessaro percorrere in un giorno per mantenerci in efficienza fisica.
La stessa azione politica è ormai giudicata secondo criteri meramente tecnici (epistocrazia): l’economia, la termodinamica, la medicina, o qualsivoglia altra brenca della scienza possa essere utile per svuotare la sfera politica di qualsivoglia contenuto. Ogni giudizio, pensiero o volizione  sono incanalati in una sorta di tonnara epistemica nel quale vi è solo una starada obbligata.
L’efficienza è ormai l’unico fine di un’epoca nella quale tutti i fini sono stati cancellati da una visione che vuole che la società sia autopoietica, alla stessa stregua di un organismo biologico.

Aristotele, nel suo trattato sulla Fisica, distinse quattro cause delle azioni: “Le cause sono quattro: materiale, formale, efficiente e finale.[2] La causa materiale è l’oggetto dell’azione, ciò su cui essa si esercita e che ne viene modificato; la causa efficiente è ciò che fattualmente provoca l’azione, il soggetto agente; la causa finale è il fine o scopo dell’azione; la causa formale ( il cui significato è oggigiorno un po’ difficile da comprendere) è il principio che governa l’azione, l’archetipo o l’idea, la visione o pre-visione di come l’azione trasformerà una porzione di mondo[3]. La ripartizione aristotelica delle diverse cause che devono necessariamente essere alla base dell’agire, è di grande importanza nella determinazione dei mezzi e dei fini delle azioni.
  Il moderno agire è un fare afinalistico (, per meglio dire, autotelico) che trae origine soltanto dalle prime due cause suddette: quella materiale, visto che si esercita sulla materia, e quella efficiente, ovvero l’azione del soggetto agente. La causa finale viene a mancare poiché il fine è assolutamente vago (il progresso lo è per definizione), e così anche la causa formale, poiché non vi è più un principio (la visione di cui sopra) che guidi l’azione(a meno che non si voglia definire principio, il potenziamento infinito dei mezzi, il che ci pare un po’ azzardato). Scrive James Hillmann in proposito:
La causa efficiente fa si che le cose avvengano. Quando viene scelta come unica causa, allora non importa più cosa avviene, a chi e per quale scopo avviene. […] Se i mezzi diventano fini, il fare diventa la giustificazione dl fare, indipendentemente da  ciò che si fa[4]
Siccome il fine è afinalistico, l’unico criterio per ciudicare un’azione rimane l’efficienza che vuole che questo fare, debba essere eseguito comunque nel modo più efficace e più vantaggioso al’’interno del processo in cui si svolge.
Tuttavia, questo fare, seppur largamente autotelico, non è completamente privo di finalità “intermedie”, che sono definite, via via, dalla Weltanschauung dominante dell’epoca: può essere il profitto (sempre sottostante a qualsiasi azione, nella società capitalistica), la volontà di potenza (come la corsa agli armamenti durante la guerra fredda), oppure da concetti più vaghi (come la “difesa dell’ambiente”) o più precisi (come il controllo sociale mediante l’applicazione di una certa visione dell’economia, della salute, ecc.). 
La trasformazione dei mezzi in fini fa si che gli esseri umani siano inseriti in processi incommensurabili ( letteralmente: non misurabili, perché al di là di ogni misura umana) dei quali non hanno la benché minima comprensione o controllo e dei quali non percepiscono alcun significato: gli esecutori devono poter pensare soltanto alla piccola funzione che è loro affidata e che è necessaria alla loro sopravvivenza.
Questo tipo di sistema è, pertanto, al di là di qualsiasi tipo di considerazione etica o teleologica: non perché sia impossibile, dal punto di vista teorico, formularne, ma perché sono concetti incommensurabili con le finalità del sistema.
Quando il fine è un mero “fare” l’unica possibile etica, ovvero l’unico giudizio di valore pertinente, è quello dell’efficienza: non può esistere altro tipo di giudizio su un telos che è autotelico.
Così Gunther Anders:
 Ognuno degli innumerevoli lavoratori specializzati compresi nel processo vede soltanto il posto che spetta a lui di capire, e ognuno è considerato coscienzioso finché esegue con coscienza il suo passo; quindi per lui non esiste immoralità fin dove spazia la sua vista perché la sua vista non spazia affatto”[5]
Perché, dunque, qualcuno dovrebbe porsi domande “superflue” sugli scopi, i risultati o le conseguenze lontane di ciò che fa?. Il fine è qualcosa di troppo distante e complesso per essere compreso. L’importante è fare,  eseguire il proprio compito coscienziosamente e in maniera efficiente, non importa cosa questo fare comporti.
“Mentre il lavoratore in quanto tale è ritenuto morale in ogni caso, il lavorare, lo scopo e il risultato del lavoro sono considerati per principio “moralmente neutrali”, ed è questa una delle caratteristiche più funeste della nostra epoca; qualunque sia l’oggetto del lavoro è sempre “al di là del bene e del male quindi non ha nemmeno coscienza che la somma delle coscienziosità specializzate può avere come risultato la più mostruosa mancanza di coscienza, perché non ha modo di rendersi conto del nesso tra il suo passo e quello degli altri”[6]
L’estrema complessità dell’Apparato fa si che ognuno possa svolgere soltanto una funzione infinitesimale in un processo immenso e, quindi,  nessuno possa avere alcuna cognizione del risultato delle proprie azioni; in breve, nessuno è responsabile di ciò che fa; ovvero può essere solo “tecnicamente responsabile” se non esegue il proprio compito secondo ciò che pertiene alle specifiche tecniche di quest’ultimo (la triade della deontologia tecnica: imperizia, imprudenza e negligenza).
Nessuno agisce ma tutti, semplicemente, collaborano nel fare e, secondo luogo comune, questo finalistico collaborare, è ritenuto intrinsecamente etico (anche perché, comunemente, si ritiene che, chi collabora, non abbia altra scelta che collaborare).

In quest’ultimo passaggio si produce un’ulteriore confusione logica: si ritiene etico questo collaborare perché non vi è scelta, tuttavia l’etica è un agire secondo un giudizio di valore e, quindi, presuppone la capacità di scegliere (che è anche l’essenza dell’azione politica ma non della tecnocrazia che, come la provedenza che governa il mondo sta invadendo interamente la sfera politica). Ergo il concetto stesso di etica si fa talmente confuso da diventare un significante vuoto: da un lato non può esistere alcuna etica, se non quella dell’efficienza dettata dalla necessità intrinseca al processo del quale gli esseri umani sono ingranaggio (anche se l’etica,  naturalmente, non concerne la causa efficiente ma solo la causa finale), dall’altro è stata generata una congerie di etiche dettate da diversi assunti tecnico/scientifici (ossia quelli strumentalmente portati, di volta in volta, all’attenzione dell’opinione pubblica come imprescindibili o inderogabili) come novelli dogmi di un potere spirituale che conferisce legittimità ad un potere temporale ormai avulso da qualsiasi legittimità democratica.
Davvero una bella confusione: il liberalismo, eticamente neutro come prassi, ha bisogno, comunque, di una finzione di stato etico come metodo di governo.
Si può pensare che questa Babele epistemica che ha condotto alla primazia delle cause efficienti –e alla conseguente ablazione dell’etica nel senso proprio del termine[7]- sia, in fondo, un peccato veniale. Tuttavia, quest’attitudine conduce –ed ha condotto- a conseguenze piuttosto rilevanti, come si può evincere dalle vicende
dei funzionari e degli ufficiali preposti ad organizzare ed effettuare la cosiddetta “soluzione finale” durante il regime nazista.
Tutti coloro che assistettero ai processi nei quali essi erano imputati (giudici, avvocati, spettatori, giornalisti) erano condizionati dall’ovvio pregiudizio che gli accusati fossero criminali incalliti, individui crudeli e abietti «per natura» e stentarono, quindi, a capacitarsi del fatto che molti di quegli uomini fossero semplicemente zelanti burocrati[8]
Adolf Eichmann, che fu il responsabile dell’organizzazione delle deportazioni e dei trasporti degli ebrei ai campi di concentramento era uno degli obbedienti esecutori che avevano tanto a cuore l’efficienza. Così lo descrive Hannah Arendt:
“Il guaio del caso Eichmann era che di uomini come lui ce n’erano tanti e che questi tanti non erano né perversi né sadici, bensì erano, e sono tuttora, terribilmente normali”[9].
L’autrice rileva che i magistrati non riuscivano a comprendere come:
«una persona comune, “normale”, non svanita né indottrinata né cinica, potesse essere a tal punto incapace di distinguere il bene dal male; perché il loro concetto di “male” presumeva che vi fosse l’intenzione a compierlo, e non che questo fosse il semplice risultato di tante operazioni apparentemente slegate, che concorrevano a realizzare il male estremo»[10].

La descrizione della tipica “giornata di lavoro” narrata da di Franz Stangl, direttore del campo di sterminio di Treblinka, sotto il cui riportata da Gitta Sereny, è, da questo punto di vista, piuttosto suggestiva:
“-Io di solito lavoravo nel mio ufficio – c’era molto lavoro amministrativo da sbrigare- fino alle 11 circa. Poi facevo un’altra ispezione cominciando dal Totenlager. A quel punto erano già molto avanti col lavoro lassù -. Intendeva dire che per quell’ora le 5 o 6mila persone che erano arrivate quel mattino erano già morte: il “lavoro” era la distruzione dei corpi”[11]
Più che la descrizione dell’attività di un sadico criminale, sembra quella di un qualsiasi impiegato,  che non deve curarsi della  “strategia o degli  obiettivi aziendali”, ma semplicemente assicurare che il sistema funzioni in maniera efficiente. Alle domande dell’intervistatrice, egli si limitava a rispondere sottolineando l’efficienza del suo operato e del sistema che dirigeva:
“- E non avrebbe potuto cambiare nulla di tutto questo? nella sua posizione non avrebbe potuto far smettere la vestizione, le frustate, l’orrore di quei recinti?-
-No, no, no. Era quello il sistema. L’aveva inventato Wirt. Funzionava. E dato che funzionava era irreversibile.”[12]
 Funzionava, questa era  la parola magica che avrebbe (secondo lui) dovuto assolverlo davanti alla propria coscienza ( e dal giudizio di colpevolezza del tribunale), perché era l’efficienza, ciò che egli doveva perseguire nel suo lavoro, null’altro, e null’altro gli importava.

Ciò che accomunava i due obbedienti esecutori è il fatto che essi non ebbero mai nessun conflitto di coscienza per quello che facevano, perché non si rendevano conto di ciò che facevano: erano pedine di un immenso apparato, troppo grande e complesso perché riuscissero a comprenderne lo scopo e il disegno.
Così Eichmann sosteneva con forza la propria innocenza:
«Con la liquidazione degli ebrei non ho mai avuto nulla a che fare; io non ho mai ucciso nessuno –né un ebreo né un non ebreo; non ho mai dato l’ordine di uccidere un ebreo o un non ebreo– […] Disse che sicuramente non si sarebbe sentito con la coscienza a posto se non avesse fatto ciò che gli veniva ordinato –trasportare milioni di uomini, donne e bambini verso la morte – con grande zelo e geometrica precisione»[13]
Dal canto suo, Stangl adoperò quasi le stesse parole:
«– Per quello che ho fatto, la mia coscienza è pulita– […] – Io non ho mai fatto del male a nessuno, intenzionalmente […] Io avevo contatto con i lavoratori ebrei – disse Stangl –Avevo con loro dei rapporti molto cordiali. Mi ha domandato poco fa se c’era qualcosa che mi desse piacere. A parte lo svolgimento del mio lavoro, era questo, che mi dava piacere: i rapporti umani»[14]

 La loro difesa (anche nei confronti di se stessi) era basata sulla loro incoscienza: non avevano scientemente, volontariamente, perseguito il male; come innumerevoli altri, avevano semplicemente collaborato, erano stati coscienziosi ed efficienti nel compiere quello che erano convinti fosse il loro dovere per il funzionamento del sistema.
«Questa normalità- scrisse Hannah Arendt -è più spaventosa di tutte le atrocità messe insieme, poiché implica […] che questo nuovo tipo di criminale, realmente hostis humani generis, commette i suoi crimini in circostanze che quasi gli impediscono di accorgersi o sentire che agisce male[15]
Oggigiorno sono in molti a sostenere che questo tipo di misfatti non sia più possibile, costoro sono, in genere, gli stessi che sostengono che vi sia un progresso nella «coscienza dell’umanità», concetto vacuo e inconcludente che non possiede alcun fondamento.
In realtà, quanto commesso da Eichmann e Stangl (e dei milioni di altri uomini che, come loro hanno «collaborato»), è possibile oggi come lo furono ieri, visto che, la complessità del mondo umano, è divenuta tale a non permettere più a nessuno (o quasi) di essere altro che, per usare le parole degli avvocati difensori di Eichmann-: «una piccola rotella» del gran macchinario della soluzione finale»[16].
L’efficienza di un Apparato che è privo di ogni senso e di ogni fine, se non un indefinito progresso individuato come sviluppo autopoietico della tecnica fine a se stessa e «costi quel che costi», non potrà far altro che accelerare la distruzione del mondo e di ciò che di umano vi è nell’uomo.
Come accoratamente commentò Hannah Arendt:
«L’enorme incremento demografico dell’era moderna coincide con l’introduzione dell’automazione, che renderà «superflui», anche in termini di lavoro grandi settori della popolazione mondiale; e coincide anche con la scoperta dell’energia nucleare, che potrebbe invogliare qualcuno a rimediare a questi due pericoli con strumenti rispetto ai quali le camere a gas di Hitler sembrerebbero scherzi banali di un bambino cattivo»[17]



[1] Tecnica deriva dal greco “tekne (τέχνη) e denota genericamente il «produrre», il «fare», il «creare». Dalla radice indoeuropea tek̂Þ-, “tessere”, “lavorare il legno”, “carpenteria” (in senso generico: “capacità di produrre”).Il sanscrito takati taksati ha il significato  di “«fare”», “«produrre”», “«creare”»).

[2] Aristotele, Fisica. 3
[3] qualor si tratti di azione politica: la forma della
[4] James Hillmann: Il potere, RCS Libri, Milano, 2004. pp52,53
[5] Gunther Anders: L’uomo è antiquato, cit. P. 231an 231 1 o 2?
[6] An 1Gunther Anders: L’uomo è antiquato, cit. P.  271
[7]
[8] Il che non attenua il crimine ma semmai lo rende ancora più efferato
[9] Hannah Arendt: La banalità del male, Feltrinelli, Milano, 1964. P p. 282
[10] Ivi, p. 34
[11] Gitta Sereny: In quelle tenebre. Adelphi,Milano, 1994 pp.228-229
[12] Gitta Sereny: In quelle tenebre, cit.. Adelphi P. p271
[13] H. Arendt, La banalità del male, cit., p. 30-33
[14] G. Sereny, op. cit., p. 278
[15] H. Arendt, La banalità del Male, cit. p.30
[16] H. Arendt, La banalità del Male, cit., p. 291
[17] H. Arendt, La banalità del Male, cit., p. 279

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